
L’insaziabile è un uomo o un mostro? La recensione
Ci sono certi romanzi la cui storia ruota attorno a una sola parola. Dove si costruiscono fantasie estese, sconfinate, partendo da un nucleo primordiale. Le figuro come una mappa concettuale. Lì, al centro, in rosso, quella parola cerchiata – magari con una matita colorata –, e da lì partono una serie di frecce che portano a nuovi concetti. Ognuno di essi è un tassello che costruisce la narrazione. Ogni nuovo movimento delle idee è una frase, o un paragrafo, o un capitolo che viene depositato e prende la sua forma.
Per l’ultimo libro di A.K. Blakemore verrebbe subito da pensare che il titolo stesso, L’insaziabile, sia il lemma predefinito. Secondo me non è così. La “fame” rappresenta meglio queste pagine. La “sensazione viscerale”, come si recita in Treccani, “stimolata dal bisogno di cibo”. Ancora meglio, si continua a leggere, è “caratterizzata dal desiderio imperioso di cibo”.
L’insaziabile, chi è la bestia?
È questa la prima immagine da cui il lettore viene colpito. Poi c’è il suo protagonista, Tarare. Umano che perde la sua umanità. Uomo che perde le sue fattezze, e i confini corporei si disintegrano. Malleabili, prendono nuove forme. Il corpo diventa nulla, o forse contenitore di cose indicibili, rigurgitante, con foga incontrollata. Il corpo diventa possessore di sentimenti oscuri. Viene colpito da traumi e ne crea altri. Il corpo di Tarare, insieme a ciò che mangia, lo definisce in tutto per tutto. E Tarare diventa molteplici cose. L’autrice delle Streghe di Manningtree varca un confine nuovo. Se prima aveva immolato la sua scrittura al racconto di donne che venivano credute delle bestie, agonizzanti in una miseria e schiave del pregiudizio irrisolvibile di un tempo, con L’insaziabile, invece, passa a raccontare una bestia, nauseante, volgare, ma allo stesso tempo fragile.

E come per le Streghe, il cui immaginario – lo sappiamo benissimo – aveva scatenato il timore per dei mostri mai realmente esistiti, anche la storia di Tarare (o Tarrare, secondo alcune fonti) è reale. Cresciuto in un villaggio nei pressi di Lione, vive tra la povertà e la miseria, con una madre prostituta. Il padre, tragica casualità del fato, muore il giorno della sua nascita. Ma sarà un episodio sconvolgente e pericoloso che instaurerà in lui una fame crescente. Non solo cibo: oggetti di ogni tipo che riescono a passare dalla sua bocca. E questa sua peculiarità lo porta al centro dell’attenzione. La gente attorno a lui lo fissa stupita. È un’attrazione che distrae il popolo dalle guerre francesi della fine del Settecento. Vagabondo, presto si ritrova coinvolto in una compagnia itinerante, per “dare spettacolo” del suo instancabile appetito.
I mille volti di Tarare
“Ha tanta fame da stare male, e lacrime roventi gli bruciano gli occhi. Benché Tarare abbia conosciuto la fame, mai prima di adesso lo ha portato al pianto. Deve assolutamente mangiare. Qualsiasi cosa farà, deve mangiare. Mangiare o morire: è tassativo”.
L’insaziabile, A.K. Blakemore
Perciò o è tutto o è niente. Non esistono vie di mezzo. Non c’è grigio che predomini e faccia da ponte tra le due sponde del bianco e nero. È un istinto di sopravvivenza. Senza non potrebbe vivere. La fame è ciò che fa di lui quel che è. È un primordiale impulso a salvarsi che perde tutti i suoi limiti. Se non mangia, allora muore. E gli attacchi, che pervadono più la sua mente che il suo corpo, si impossessano di lui. Demoni spietati che lo controllano in ogni movimento in un’estasi illusoria; un rituale incatenante. Come ipnotizzato da un’azione.

Mangiare, mangiare e ancora mangiare. Per non fare solo del male a se stesso, ma anche agli altri. Tarare è tante cose, ma non è più un uomo. Viene de-umanizzato completamente. È fenomeno da baraccone, è un freak, un Mangiaratti, come spesso viene chiamato. Non è più fatto di carne, ma un mostro che spalanca le fauci, che perde il favore di Dio e in grado di macchiarsi di un crimine. Tutti lo vedono così: il Grande Tarare!, l’Ingordo!, l’Uomo senza Fondo! Una bestia famelica. Un insaziabile. O, preferisco – perché rende di più l’idea – la parola che viene utilizzata in lingua originale: glutton. Il peccato di Gola. Ancora più primordiale e viscerale. Quel vizio capitale esempio di sfrenatezza. Chi pecca di ingordigia perde ogni inibizione e si lascia andare, con estrema sfrontatezza, ai piaceri del cibo e delle bevande.
Blakemore, con L’insaziabile, domina oltre i generi
Interessante come A.K. Blakemore – e questo sta diventando una firma di stile nei suoi libri – tenti in qualche modo di sconfinare nei generi letterari. I suoi sono romanzi storici, basati su fatti realmente accaduti, le cui storie grazie alla sua immaginazione vengono gestite molto bene tra vero e finzione letteraria. Allo stesso tempo, però, aleggia tra le sue pagine scritte una sensazione, un filo sotterraneo che pervade per tutto il tempo. Un irreale che non c’è per davvero. Questo inverosimile ne L’insaziabile è molto evidente, forse ancor di più del suo precedente romanzo. Non è un fantasy, non si parla nemmeno di realismo magico. Ma la scrittrice ha la splendida capacità prima di tutto di scegliere le storie giuste, quelle che sono in grado di plasmarsi a favore di una nuova narrazione in grado di catturare l’attenzione del lettore per le sue imprese meravigliose.

Il romanzo, uscito per Fazi Editore nell’ottobre 2024 e finalista del Dylan Thomas Prize, è un altro grande risultato della scrittrice. Il libro precedente, un esordio travolgente, ha un impatto molto forte agli occhi di chi lo legge, soprattutto per le tematiche trattate che, sottintese, si possono interpretare con una declinazione e una collocazione diverse anche per i nostri giorni. Quest’ultimo, invece, si distacca dal principio di voler portare un qualche tipo di “messaggio”. Tuttavia, non si allontana dalla sensibilità umana che Blakemore è in grado di trasmettere attraverso le sue parole. Difende le debolezze, prima di tutto, dello spirito. Lo stile, allo stesso tempo, è una grande dominante a parer mio che contraddistingue la scrittrice. Il suo usus scribendi affascina perché è senza fronzoli, ma è accentuato da una dolce nota poetica, conseguenza dal suo background da poetessa.