
Together, un body horror sulle relazioni tossiche
A quasi un anno di distanza dall’uscita in Italia di The Substance, è ora disponibile in sala Together, opera prima di Michael Shanks con protagonisti Alison Brie e Dave Franco, distribuito da Neon e I Wonder Pictures. Ad oggi, Together ha incassato 21 milioni di dollari negli Stati Uniti e in Canada e 11 milioni di dollari in altri territori, per un totale mondiale di 32 milioni di dollari, con una spesa di produzione di circa 15 milioni di dollari.
La trama in breve (no spoiler)
Millie (Alison Brie) e Tim (Dave Franco) sono una coppia sospesa tra un amore profondo e fragili equilibri relazionali. Millie, donna in carriera determinata e sicura dei propri sentimenti, è pronta a costruire un futuro condiviso. Tim, invece, è ancora in cerca della propria strada: sogna in grande, ma è paralizzato dalle sue insicurezze, che minano anche il rapporto con Millie. Il trasferimento in una nuova casa e una gita fuori porta apparentemente innocua daranno il via a una serie di eventi imprevedibili, destinati a stravolgere le loro vite, nel corpo e nella mente.
Conseguenze estreme di una relazione tossica
Classificare Together non è semplice. La potente campagna di marketing lo ha presentato come un body horror, complice anche il recente successo del genere grazie a titoli come The Substance. Tuttavia, questa etichetta rischia di creare aspettative fuorvianti rispetto alla reale natura del film. Together si rivela piuttosto un interessante ibrido tra thriller, commedia romantica e dramma familiare, uniti da un filo conduttore paranormale e punteggiati da momenti di forte tensione e sottile inquietudine.
Fin dalle prime scene emerge con chiarezza quanto siano centrali le dinamiche di coppia tra i protagonisti, e soprattutto quanto disfunzionale sia il loro modo di affrontarle. Entrambi profondamente insicuri, evitano il confronto diretto e ricorrono invece a strategie di manipolazione emotiva. Millie, ad esempio, provoca Tim attraverso atteggiamenti passivo-aggressivi, nel tentativo di stimolare una reazione, mentre lui si rifugia in un silenzio freddo e distaccato, alimentando ulteriormente la distanza emotiva che li separa. La frustrazione di Millie di fronte al suo distacco si traduce in comportamenti sempre più controllanti: Tim non guida, si trasferisce per seguire lei in un luogo isolato e non gode della sua piena fiducia nemmeno sul piano professionale, in quanto musicista. Dall’altro lato, Tim appare instabile nel modo in cui esprime i propri sentimenti: il suo attaccamento a Millie sembra derivare più da un bisogno di dipendenza affettiva che da un reale desiderio di costruire un rapporto solido e condiviso.
Su queste premesse, il film sviluppa una trama dai contorni horror non del tutto definiti, inserendo spunti interessanti ma poco sviluppati e lasciati a metà. Le riflessioni sulle dinamiche tossiche all’interno della relazione — che avrebbero potuto rappresentare il vero punto di forza della pellicola — non vengono approfondite totalmente, favorendo scelte narrative più convenzionali. La presenza di una setta, di persone scomparse e del classico “luogo maledetto” sembrano infatti strizzare l’occhio a un tipo di horror più generalista, oggi particolarmente in voga, ma che finisce per indebolire l’originalità del racconto.
Il mito di Aristofane in chiave horror
Prendendo alla lettera il Mito dell’Androgino raccontato da Aristofane ne Il Simposio di Platone — secondo cui gli esseri umani, originariamente completi e doppi, furono divisi da Zeus e da allora vivono nella costante ricerca della propria metà — il regista mette in scena una rappresentazione macabra dell’ossessione di apparire perfetti agli occhi del proprio partner e di rimanere legati all’immagine idealizzata che si ha della coppia. Un desiderio che, nella sua forma più patologica, porta a dissolvere i confini tra sé e l’altro, fino a non distinguere più dove si finisce e dove si comincia.
Il risultato è una messinscena fortemente fisica, a tratti erotica, che sfiora riflessioni psicologiche affascinanti, ma che restano in superficie, non del tutto approfondite. L’idea potente della fusione corporea è accompagnata da simbolismi a volte didascalici, che avrebbero avuto maggiore forza se, anziché affidarsi a svolte soprannaturali, si fosse scelto di scavare più a fondo nel passato della coppia e nelle loro fragilità interiori. Alla luce di tutto ciò, il finale (che non sveleremo) risulta paradossalmente liberatorio — nonostante sia, a tutti gli effetti, una tragedia psicologica. Forse anche questo è voluto: un modo per suggerire come, nella vita reale, davanti a relazioni ormai compromesse, si preferisca spesso incorrere in scenari drammatici piuttosto che affrontare il conflitto, accettare la fine e eventualmente lasciar andare.
La colonna sonora e la fotografia
Da un punto di vista tecnico, il debutto alla regia di Michael Shanks è sorprendentemente solido. Con uno stile fluido e un’estetica dal gusto indie, il regista riesce a costruire un equilibrio efficace tra suspense e mistero, alternandoli a momenti più intimi e contemporanei, che facilitano l’immedesimazione del pubblico nel contesto naturale, quasi bucolico, della storia.
La fotografia — dominata da toni caldi e autunnali — contribuisce a creare un’atmosfera suggestiva, mentre zoom e primi piani spesso inquietanti introducono sin da subito il malessere emotivo dei protagonisti e ne prefigurano gli sviluppi drammatici. Anche la colonna sonora, curata dal compositore australiano Cornel Wilczek, si muove abilmente tra leggerezza e tensione: accosta brani pop a soluzioni più ricercate, spaziando dalle Spice Girls a Billie Eilish, fino a pezzi strumentali e ai The Neighbourhood.
Together: top o flop?
In conclusione, Together è un film interessante, perfetto per il periodo autunnale — tanto per le sue sfumature più inquietanti quanto per i toni intimi e malinconici che lo attraversano. Un’opera che, pur mostrando qua e là qualche ingenuità o forse tradita da una campagna di marketing eccessivamente sensazionalistica rispetto ai suoi reali intenti, riesce comunque a lasciare il segno. Vale la visione in sala, soprattutto per la sua capacità di aprire riflessioni e stimolare il dibattito sulle dinamiche relazionali… e non solo.