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La Cecilia, l’estate e la spasmodica ricerca di sé

La Cecilia, l’estate e la spasmodica ricerca di sé

Il divario tra genitori e figli, tra adulti e adolescenti, non è mai tanto ampio come a quattordici anni. Dopo essersi aggiudicata il Premio Campiello Giovani nel 2020 con il racconto Meduse, a soli diciannove anni, Michela Panichi esordisce con un romanzo dalle tinte nostalgiche e disilluse. La Cecilia, edito da Nottetempo e finalista nel 2024 alla XXXVII edizione del Premio Italo Calvino, dipinge il dramma adolescenziale di una ragazza strappata a forza dall’infanzia e costretta a gestire il disagio di un corpo che non le appartiene, mentre si accorge che la crescita dipende dalla biologia tanto quanto dalle bugie che si imparano a raccontare.

Cecilia, la cecilia, Luca: l’equivoco e la bugia

È estate, quella che le notizie descrivono come la più calda da decenni (ma non lo fanno tutti gli anni?), e Cecilia rientra nella casetta che la famiglia occupa per le vacanze lontano dalla frenesia di Napoli, nella protezione vigile di Ischia, dove tutti conoscono tutti e nessuno può nascondersi. Nemmeno lei o la rabbia passivo-aggressiva della madre, che sfrutta l’astio nei confronti del marito per traslocare la stanza di Cecilia in quello che un tempo era stato uno studio. Lo sviluppo della figlia tarda a presentarsi perché trascorre troppo tempo con il fratello, questo sottintende. Se a Cecilia sarà concessa la privacy degli spazi – camera nuova, il bagno di sotto, un costume a due pezzi – allora il miracolo finalmente avrà luogo: diventerà una donna – una femmina. Invertire la rotta diventa l’unico obiettivo di Cecilia, l’ossessione di «combattere contro la battaglia chimica in corso nel [suo] corpo», di rimanere aggrappata all’infanzia in cui forse non sarà maschio ma sicuramente non è femmina. E quanto la possibilità si presenta, scivola nella bugia con la facilità degli adulti.

Il mio nome lo aveva scelto mio padre, ed era il primo legame tra noi. Mentre il cordone ombelicale mi sembrava una cosa più fisica, sporca e nodosa, e quindi lo aborrivo come la compagnia di mia madre, quelle tre sillabe mi sapevano di pulito. […] Il motivo del mio nome l’ho sempre ignorato. Così, quando scoprii che mi chiamavo come un anfibio, e per giunta uno dei più brutti, accolsi la notizia con la serenità che accompagna le cose già date. La cecilia è un verme del Sud America, maschio e femmina, e non vede. Durante l’estate dei miei tredici anni il mio nome di anfibio, pieno e tronco allo stesso tempo, cambiò in Luca. Come mio fratello.

La Cecilia, Michela Panichi

L’esistenza anfibia come metafora del disagio della crescita

La pelle che la ingabbia, Cecilia vorrebbe strapparsela di dosso a morsi. Dovunque si giri, non riesce a identificare nessuna categoria alla quale appartenere: sta crescendo, non può più giocare a non vedere le distinzioni che un giorno differenzieranno in maniera irreversibile il suo corpo da quello di suo fratello; non è più una bambina, nonostante lo strenuo sforzo di rimanerlo, ma di certo non è adulta né punta a diventarlo.

A tredici anni odiavo il mio corpo. E in estate il problema della sua esistenza mi appariva più concreto e terribile che mai.

La Cecilia, Michela Panichi

Quindi, quando suo fratello Luca le rinfaccia di portare il nome di un verme anfibio, in qualche modo, nella testa di Cecilia tutto si allinea. Parte delle domande che si è posta sul suo disagio trovano un riscontro. È maledetta da un nome ibrido che, essendo l’una e l’altra cosa, alla fine non ne è alcuna. Si rafforza una vera e propria identificazione, che scava nella mente della protagonista fino a insinuarsi nei suoi sogni. Cecilia studia la cecilia-verme come se potesse imparare a conoscere la Cecilia-futura-femmina, si cava gli occhi sulle enciclopedie del fratello esplorando le specie animali e, ogni volta, si sente più sporca di prima. Più degli animali, le vere creature bestiali sono gli adulti, così falsi, così sconosciuti. I bambini catalogano il mondo in maniera elementare, secondo opposti che non prevedono eccezioni: grande e piccolo, buono o cattivo, maschio e femmina. È infantile, ma è anche biologico. Il vero fatto sconcertante della crescita è accorgersi che il mondo degli adulti comporta una vasta gamma di zone grigie, e per una mente in cerca di risposte è il caos più totale. Ecco dunque che la dimensione anfibia diventa simbolo della difficoltà da parte di Cecilia di incasellarsi in un mondo che non le corrisponde – a metà tra maschio e femmina, a metà tra infanzia ed età adulta, a metà tra due spiagge.

L’eco di Elsa Morante nell’isola di Cecilia

“Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. Tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno; ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue, perché il tuo sangue è come un animale doppio, è come un cavallo grifone, come una sirena. E potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto, fra tanta gente che s’incontra al mondo; però, molto spesso, te ne starai solo. Un sangue-misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro.”

L’isola di Arturo, Elsa Morante

Se la Procida di Arturo descritta da Morante nel 1957 è un’isola a tratti magica, infusa di un desiderio d’avventura che si riflette anche nel carattere combattivo del suo protagonista, la costa di Ischia abitata da Cecilia è spogliata di ogni luccichio, tagliente e sporca, come sporche sono le scoperte alle quali fa da teatro.

Il confronto non lascia scampo a Cecilia; dovunque si guardi intorno, non somiglia – e non vuole somigliare – a tutte quelle femmine nate «biologicamente pronte al rossetto» e che si radunano al porto per mettere in mostra i loro corpi sviluppati al fine di fare conquiste. Teresa, la migliore amica che ha lasciato a Napoli, è come loro. Sua madre, un tempo, deve essere stata come loro. Proprio in risposta a questo rifiuto si impongono i Maronti, la spiaggia che incarna la libertà e la possibilità di esercitarla, perché le onde non sono contenute dai frangiflutti come al lido per famiglie di Sant’Angelo e, soprattutto, perché lì, in mezzo agli scogli, non ci sono genitori, soltanto ragazzini che vogliono diventare grandi alle proprie condizioni.

I Maronti e Alba

Nella cornice dei Maronti viene a crearsi una società di soli ragazzini, del tutto anarchica, dove mancano le richieste e le aspettative assillanti esercitate dall’ingombro dei genitori. Entrare in contatto con la sfera della sessualità all’interno di una dinamica di gruppo –perciò dirompente e spiccatamente performativa – non è il modo più sano, ma per Cecilia è già qualcosa. Anzi, diventa tutto. Se, da un lato, la comprensione di tali dinamiche dipana la nebbia di confusione, la realizzazione la colpisce gettandola nella frustrazione dello sconforto.

I capelli corti di un maschio, i vestiti di una femmina, le voglie di un maschio. Il dentro e il fuori cozzavano e io mi sentivo impotente, nel mezzo, schiacciata da una doppia maledizione. Mentre guardavo il triangolo del mio pube, io mi detestavo.

La Cecilia, Michela Panichi

A gettare benzina sul fuoco dell’incomunicabilità tra corpo e mente contribuisce Alba, l’astro splendente intorno al quale ruota l’intero gruppo. Alta, sicura, biondissima tanto da sembrare una turista tedesca, Alba appare come uno spettro estraneo alla spiaggia di Sant’Angelo. La sua comparsa folgora a tal punto Cecilia da indurla inconsciamente a cercarla lungo il lido, fino a trovarla ai Maronti. Proprio in quel teatro si trova lo spazio necessario per la crescita, uno spazio che niente aveva a che fare con il cambiamento di stanza operato dalla madre. Cecilia si lascia colpire dalle circostanze; nasce l’equivoco e nasce Luca.

Le femmine di Cecilia, da Alba alla madre

Molte sono le donne che compaiono nel romanzo a rappresentare, ognuna alla propria maniera, i diversi modelli di femminilità nella vita di Cecilia. C’è Alba, ovviamente, dotata di fascino e disinibizione che provengono dall’essere l’unica locale in un manipolo di turisti, colei che detiene il comando del gruppo. Odia e scappa, Alba, sfugge alla categorizzazione della mente infantile, è libera e se ne vanta, a costo di sguainare la crudeltà e usare a proprio guadagno le persone che baciano la sabbia sulla quale cammina. Viene presentata come l’ispirazione femminile di Cecilia, l’esemplificazione di tutto ciò che dovrebbe essere e che lei non sarà mai, fino a trasformarsi definitivamente nell’incarnazione del suo desiderio proibito, la ragione per cui si costruisce un’identità falsa.

Mi piacevano le femmine, sì, e in questo il mio corpo non mi assecondava.

La Cecilia, Michela Panichi

Uno dei motivi – se non il principale – per cui Cecilia ha un rapporto conflittuale con la sfera femminile è perché conflittuale è il rapporto con sua madre. Veste i panni dell’adulta distante, garante della mentalità tipica dei piccoli paesi, ancorata a una visione che arranca al confronto con i tempi: se lo sviluppo tarda a presentarsi, allora sarà colpa dei vestiti da maschio, dei capelli corti, del bagno e della stanza condivisi con il fratello. È il genere di chiusura ermetica che respinge Cecilia dal chiedere aiuto, perché dalla sua estate anfibia capisce che all’essere maschio e femmina corrispondono emozioni diverse, per l’uno la rabbia e per l’altra la vergogna.

Credevo che la sua ostilità avesse una natura biologica: lei era femmina, con tutte le curve adatte, e io ero un essere spigoloso su cui quelle forme non attecchivano. A volte mi dicevo che eravamo di due razze diverse e inconciliabili: della mia facevano parte mio padre, mio fratello e tutti quelli che esprimevano l’affetto con il corpo, e che a volte urlavano. In quella di mia madre c’era lei e basta.

La Cecilia, Michela Panichi

Questa, poi, è la stessa radice marcia che ha corrotto il rapporto tra Cecilia e la sua migliore amica. Non soltanto Teresa si è formata molto prima di lei, imparando a truccarsi e sviluppando infatuazioni per alcuni ragazzi, ma è una normale figlia di una madre normale, alla quale può confessare ogni minimo dubbio. Cecilia non ignora la madre per ripicca, anzi, spesso si dispiace di non essere ciò di cui ha bisogno (“Quasi mi sentii in colpa: sopportare l’inquilinismo della gravidanza per produrre un essere che non capisci. Avrei voluto soddisfarla come Luca”), ma comprende anche di conoscere solamente l’odio come forma d’affetto. Paradossalmente, le differenze tra la Cecilia-maschio-e-femmina e la femminilità pura della madre vengono ad assottigliarsi soltanto nella comunanza d’intenti, nella rabbia che viene dal tradimento, quando anche la donna più calibrata dimostra di non appartenere a una razza così aliena.

Cecilia e il crollo del mito genitoriale

Crescere, scopre Cecilia, significa imparare a vedere gli errori dei propri genitori. La madre le è sempre apparsa imperfetta, antitetica, nel suo modo così da femmina di gestire le situazioni. Eppure mostra delle crepe, dietro la maschera impassibile, ma continua a decidere di masticare il risentimento in silenzio, inghiottendone la delusione. Il vero colpo basso per Cecilia è scoprire la fallibilità del padre, l’uomo – il maschio – nella cui forma ha sempre trovato casa. Ora che però i Maronti le hanno concesso gli strumenti per interpretare la realtà, Cecilia aguzza l’occhio, mette insieme i pezzi: l’orecchino a spirale, il costume comprato e mai regalato alla madre, le telefonate di nascosto, lo strano riferimento a una pillola, il ricordo della sauna. Cecilia soffre l’incomprensibilità, fatica ad adattarsi nel mondo di zone grigie che non prevede soltanto antipodi, come vorrebbe. Gli adulti mentono, si sottraggono alle responsabilità, e Cecilia si trova a annegare nel terrore che, crescendo e ingigantendosi la sua bugia, finirà per assomigliare sempre più a loro.

“Se vuoi venire a casa mia, ti ci porto, Luca”.

Mio fratello. Quello che avrebbe chiamato se mi avesse vista, se durante quella maledetta ricerca avesse guardato verso casa mia. Quel nome ebbe il potere di destabilizzarmi del tutto. Avrei voluto dirle che mi chiamavo Cecilia, come un verme del Sud America, che ero una femmina e fumare non mi piaceva. Che mi piaceva lei, invece. Ero invischiata in una bugia colpevole come mio padre.

La Cecilia, Michela Panichi

La voce di Cecilia

Michela Panichi ha tracciato con una delicatezza tagliente il passaggio cruciale tra infanzia ed età adulta, tratteggiando con uno stile fresco e incisivo le dinamiche di disagio e ribellione tipiche dell’età. L’estate – il caldo appiccicoso, il sudore, le grida – non fa altro che aumentare l’irrequietezza di Cecilia. La dismorfia è soltanto la punta dell’iceberg, e il lettore se ne accorge mano a mano, entrando nella mente di una ragazzina che impara a diventare adulta alle proprie condizioni, sbagliando e fallendo. Se quest’immedesimazione riesce, se Cecilia acquisisce i tratti concreti di un’adolescente reale, è grazie alla prosa di Michela Panichi che, seppur giovanissima, incastra e afferra all’amo l’attenzione senza lasciarla andare. La Cecilia è il romanzo perfetto per i giorni di afa irrespirabile perché, credetemi, è una vera boccata d’aria fresca.

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