SCRITTURA CREATIVA
L’ora delle streghe

L’ora delle streghe

È l’ora delle streghe.

Mezzanotte in punto e poi fino al levar del sole.

È l’ora delle streghe.

Rintocca, muta, fugge, s’arresta.

È l’ora delle streghe.

È l’ora delle streghe.

È l’ora delle streghe.

A casa mia non succede mai qualcosa di diverso. Tra queste quattro mura gli unici rumori costanti, che non si esauriscono mai, sono lo sbuffo di vapore del ferro da stiro di mia madre e la televisione accesa sul calcio di mio padre. Tutto il giorno, dalle sette di mattina alle dieci di sera, come il rintocco di un orologio. Mia sorella, che ha un anno e mezzo, si fa sentire molto meno rispetto ai “ciuf” delle lingue delle lattine di birra che mio padre fa saltare, più o meno ogni mezz’ora. Dopo l’ora di cena, di solito, iniziano le grida, ma a quel punto io cerco solo di addormentarmi e non sentire. Non ci riesco mai.

Me ne sto sempre in camera mia, dove c’è un quasi-silenzio, perché la porta la tengo chiusa. Quello che sento intrappolato nelle quattro mura della mia stanza non è proprio silenzio, quindi, ma un brusio ovattato del caos che regna fuori, nel salotto, nell’atrio del condominio, nel quartiere periferico in cui viviamo. Nel mio mondo in miniatura perdo tempo a pensare, leggere e mangiare cucchiaini di burro d’arachidi che pesco direttamente dal barattolo. La mia vita scorre in questo modo da circa sedici anni e io non mi lamento. C’è chi sta peggio. Mia madre, ad esempio, sta molto peggio di me.

La vedo ogni giorno alzarsi e preparare la colazione a papà, che neanche dice “grazie”, ma le dà una pacca sul culo. Poi ingozza mia sorella di pappetta alle mele, che fa una puzza di marcio disgustosa, ma alla mamma piace sporcarsi le mani di quella roba, impiastricciare il viso paffuto della bambina e ridere quando anche lei ride, tentando di leccarsi via la pappa dalla punta del naso. Poi, quando mio padre si alza dal tavolo della cucina e si piazza davanti alla televisione, lei finalmente si beve un caffè. Lo beve sempre in piedi, appoggiata al piano dove stanno i fornelli. A volte penso che speri di prendere fuoco, perché i suoi occhi sono così vuoti, mentre sorseggia il suo caffè, sono così vuoti, specialmente il venerdì, sono così vuoti che paiono legna all’ombra del camino un attimo prima che divampi la fiamma. In un secondo il suo umore cambia: prima rideva, appiccicosa di omogenizzato alla mela, poi le veniva una faccia da funerale.

Mio padre è uno stronzo. È secco come un lampione perché il cibo che cucina la mamma non gli piace e se lei prova, nei momenti di maggiore insofferenza, a dirgli di cucinarselo da solo, lui va su tutte le furie e alza le mani. Mio padre camperebbe di birra in lattina e patatine in busta, se solo non ci fosse la nonna a rimproverarlo, a dirgli che deve magiare più verdura, perché solo così camperà cent’anni. La nonna è l’unica donna che ha un’ascendente su di lui: lo tratta come un bambinone e tutto ciò che gli suggerisce di fare mio padre lo fa, muto, come un cane ubbidiente. Lei è la sua mamma, quella che l’ha partorito, quella che ha fatto stare bene suo padre, quella che l’ha sepolto e ha organizzato la messa per tutti i cari che volevano porgergli l’estremo saluto. È proprio una brava donna, la nonna, dice sempre papà. Non come tua madre, aggiunge, o le sue amiche con cui si vede per fumare di nascosto. Forse pensa che mamma il suo funerale non lo organizzerebbe mai, che prenderebbe il suo corpo e lo butterebbe in un fiume, o in una buca di terra fredda e sconsacrata. Farebbe bene. Mio padre è la cosa meno sacra che riesca a venirmi in mente.

Quella sera, a cena, mamma aveva preparato pasta al sugo e bistecca al sangue. Vedere il succo della carne sbrodolare la barba incolta di mio padre mi fece venire il voltastomaco e decisi che non avrei più mangiato animali. Spazzolai il piatto di pasta al sugo, perché a me come cucinava la mamma piaceva. La roba era semplice, aveva sempre lo stesso sapore di fondo, il sapore di casa, il sapore delle sue mani gentili, che mi accarezzavano la testa e mi dicevano “stai crescendo proprio bene”, mentre facevo la scarpetta col pane. Quella sera papà si arrabbiò di nuovo e le diede un ceffone in faccia, davanti a noi bambine. Mia sorella scoppiò a piangere. Neanche sapevo qual era il motivo per cui si era arrabbiato, forse non ce n’era neanche uno. Forse aveva solo voglia di metterle le mani addosso e quello era l’unico modo che conosceva per farlo. Lei rimase zitta, seduta a tavola, il coltello stretto nella mano destra. La vidi tremare, proprio lì, proprio attorno al manico della lama. Fallo, pensai. Fallo, nessuno ti giudicherebbe.

In camera mia ci andavo subito dopo cena. Mi chiudevo la porta alle spalle e pescavo un barattolo di burro d’arachidi da sotto il letto. Dal comodino tirai su Il ritratto di Dorian Gray, un gran bel libro, mi stava proprio prendendo. Mi ero ficcata le cuffiette nelle orecchie, sentivo Beethoven a tutto volume: se papà avesse urlato, non l’avrei sentito, troppo presa da quelle sinfonie battenti come pioggia in un temporale. Ogni tanto speravo, quando la mamma era fuori ed io ero in camera mia con le cuffiette, che papà si mettesse a strillare davvero, magari perché gli stava venendo un infarto e voleva che chiamassi l’ambulanza. A quel punto sarebbe morto sul suo bel divano e io alla polizia avrei detto, piangendo lacrime di coccodrillo: non ho sentito niente, avevo Beethoven nelle orecchie. Forse erano pensieri macabri, ma meglio pensare a questo che alla possibilità di ucciderlo con le mie stesse mani.

Bussarono alla porta e la mamma entrò. Spesso si rifugiava lì, con me. Sedeva sul mio letto per cinque o sei minuti e poi andava via, altrimenti papà si sarebbe innervosito. Diceva che tramavamo contro di lui, che nessuno gli voleva bene, in quella casa. Non come glie ne voleva la nonna. Ma stavolta qualcosa mi disse che sarebbe andata diversamente. Mamma si era vestita, aveva il cappotto addosso e il cappello, quello buono con cui faceva finta di andare a messa, quando invece andava a comprarsi le sigarette e si chiudeva due ore in libreria. Si era truccata e, una volta che il suo viso fu illuminato dalla luce montata sul mio comodino, vidi che la cipria era stata possentemente applicata sotto l’occhio destro, per nascondere un livido fresco di cui ancora si scorgeva l’ombra violacea. <Mamma?> La mia voce tremò di rancore.

Lei si sedette accanto a me, stese le gambe e mi fece accoccolare contro di lei. Stava piangendo, senza preoccuparsi che le lacrime avrebbero potuto trascinare via la sua maschera rosea. E io capii che se ne sarebbe andata. <Domani mia madre viene a prendersi Sasha.> Lei sapeva che avevo capito. <Ti ho lasciato un po’ di soldi, il più possibile che ho potuto, nelle mie scarpe col tacco rosse, te le ricordi?>

<No.>

<Dai, sono quelle che ho messo al battesimo…>

<No, io vengo insieme a te.>

Alle undici, quando mio padre iniziò a russare davanti al televisore, io e mamma aprimmo la porta di casa ed uscimmo, con in spalla lo zaino e un borsone dove avevamo infilato le cose in comune che ci sarebbero servite per arrivare almeno alla prossima grande città. Scendemmo le scale piano piano, per paura di far affacciare qualche vicino impiccione che avrebbe sicuramente spifferato tutto a papà. Avrebbe detto che quella scema di sua moglie e la figlia sciagurata s’erano date alla pazza gioia, stanotte. Che glie l’avevano fatta proprio sotto al naso! Non sai neanche ammansire due giumente mosce, eh? Se fossero state moglie e figlia di tuo padre avrebbero visto la cinghia!, così avrebbe detto il vicino, lasciato dalla moglie dopo quindici anni di matrimonio infelice e abbandonato dal figlio, che era andato a lavorare in America, giurando che l’avrebbe denunciato alla polizia, se solo avesse provato a contattarlo. Lui sì che le aveva ammansite le sue giumente.

In strada prendemmo l’autobus notturno fino alla stazione dei treni e ci sedemmo su una panchina ad aspettare il regionale della mezzanotte. Il grande orologio della stazione incombeva su di noi, appeso alla parete, e scandiva l’universo con i suoi brevi ticchettii, uno al secondo, così per l’eternità. Io e la mamma ci stringemmo l’una all’altra, perché faceva freddo e perché avevamo paura. Paura di cambiare idea e tornare indietro. Gli zaini pesavano sulle nostre spalle, lasciandoci poco spazio sulla panchina sopra cui c’eravamo piazzate; ma avevamo troppa paura di lasciarli a terra: lì dentro ci avevamo fatto entrare tutta la nostra vita. Lentamente, ci addormentammo.

Don. Don. Don.

Il rintocco della mezzanotte ci fece svegliare di soprassalto. La stazione era vuota, non volava una mosca, ogni rumore soppresso da quel rintocco malefico. Un brivido di freddo mi attraversò la schiena e mi strinsi nel cappotto di lana, comprimendomi come una tartaruga. La mamma si alzò per dare un’occhiata al binario; il treno non era ancora arrivato in stazione. Anzi, l’atmosfera circostante dava l’impressione che nulla sarebbe mai arrivato, lì. Come l’edificio fosse improvvisamente morto. Non c’era nessuno in biglietteria e neanche gli inservienti che pulivano. Non c’era il capostazione e non c’erano i passeggeri in attesa di salire. Non si udivano respiri, a parte i nostri, che creavano nuvole di condensa davanti alle labbra intorpidite. <Hanno cancellato il treno? Quand’è il prossimo?> Il tabellone elettronico su cui venivano segnate le partenze e gli arrivi si spense all’improvviso, diventando un rettangolo nero. Cade a pezzi, questo Paese. Mi alzai anche io e raggiunsi la mamma, che aveva una brutta cera. <È colpa sua. Non ci vuole far andare via. È tutta colpa sua, maledizione! Tuo padre, quel pezzo di…> Io le strinsi la mano, trovandola gelida. <Mamma, non può essere lui. Papà è a casa, sta dormendo sul divano. Ci dev’essere stato un guasto. Abbiamo i soldi, possiamo stare in hotel, stanotte.> Si fece trascinare oltre la panchina su cui eravamo sedute ma, prima che raggiungessimo la porta, i miei piedi si incollarono al pavimento. Alzai la testa. Anche l’orologio si era fermato. Le lancette erano allineate sul numero dodici. Fermo a mezzanotte in punto. Mi venne una fitta d’angoscia allo stomaco, immotivata, come quando ti raccontano una storia di fantasmi e tu credi che si avvererà la notte stessa. Poi si accese una luce.

In lontananza, alla fine del corridoio che portava ai treni, qualcuno aveva acceso una lampadina priva di paralume, o il fuoco di una candela, perché la luce tremolava e aveva un ché di tribale. <Mamma, forse il treno sta arrivando.> Con le mani allacciate, procedemmo verso il binario 1 e, una volta superato il breve corridoio, sbucammo sulla banchina, i piedi a meno di un passo dalla linea gialla. La luce proveniva da una candela. La candela era sorretta da una persona, più simile a un’ombra. Lanciai uno sguardo a mia madre che avrebbe dovuto tranquillizzarla. <Vado a chiedere informazioni a quella signora, aspetta qui.> Mi avvicinai con passo incerto a quello spettro vestito con un lungo mantello nero, il cappuccio alzato. La mano che sorreggeva la candela era pallida e rigida, la mano di un morto. Più mi avvicinavo a lei, più avevo paura, ma i miei piedi non riuscivano a fermarsi, attratti, falene verso la luce. Quando le fui a pochi metri, mi schiarii la voce, certa che sarebbe uscita come un pigolio. Chiesi se sapeva quando sarebbe arrivato il prossimo treno. Lei non si mosse. Lo dissi di nuovo. Niente. Allora le dissi che io e mia madre avevamo bisogno di aiuto. Che era una cosa seria. Che sarebbe stato orribile non indicare la via a due donne perse nel buio di una stazione deserta. Allora lei si riscosse, si voltò, dandomi le spalle, e cominciò a camminare, facendomi segno di seguirla. Io lanciai un’occhiata alla mamma e insieme seguimmo la misteriosa donna incappucciata, improvvisamente prive di timore. Quella era l’unica luce nel buio della stazione e noi l’avremmo seguita, senza perdere l’orientamento, ovunque ci avesse condotto.

La figura si muoveva come una manta, fluida, lungo la banchina. Poi oltrepassò la linea gialla e saltò giù, sui binari. Io e la mamma ci fermammo di colpo, prese dal panico. Lei avvertì il nostro indugiare e si fermò a sua volta, girandosi verso di noi. Si abbassò il cappuccio e finalmente vedemmo il suo viso, illuminato dall’oro brillante della candela. Era una donna molto bella, nonostante il lungo naso aquilino, che tutto sommato donava all’insieme una sorta di unicità. I capelli neri e scompigliati sbucavano fuori dal cappuccio come alghe marine, lucidi e corposi. Ci guardò con aria comprensiva e, per la prima volta da quando eravamo uscite fuori dal letto in camera mia, avvertii calore. <So che fa paura, ma non passeranno treni per molto tempo, qui. Se intendete aspettare, non vi tratterrò.> La mamma mi guardò e mi chiese con lo sguardo cosa avrebbe dovuto fare; sembrava lei la bambina da accudire ed io avrei dovuto prendere la decisione per tutte e due.

I binari sotto alle suole delle scarpe mi facevano inciampare di continuo. Il tunnel era buio e claustrofobico. Ad ogni minimo rumore, ad ogni minimo tremore, saltavo su me stessa, aspettandomi di veder comparire le luci del treno giungere dal fondo della galleria per schiacciarci. Camminavamo nella penombra di quell’unica candela da più di dieci minuti, dirette chissà dove, seguendo una sconosciuta che viveva sui binari del treno. Tutto questo è comunque meglio di casa, pensai. Finalmente l’aspra traversata si interruppe. La donna misteriosa raggiunse la parete del tunnel, che era scura, umida e sporca di strane sostanze che nessuno riesce mai a pulire del tutto. La candela scomparve sotto al mantello, senza essere spenta. Spalancai gli occhi, prede dal terrore che prima o poi la donna avrebbe preso fuoco, sarebbe morta di fronte a noi, lasciandoci sole nel buio più totale. Invece tutto ciò non successe affatto. La candela emanava comunque un chiarore, nonostante fosse sotto il mantello, retta da chissà cosa, visto che entrambe le mani della donna ora erano posate sulla lurida parete. Lei chiuse gli occhi e intonò delle parole, un sussurro remoto che rimbombò nella galleria. Un’eco solenne, sparpagliata in ogni angolo, toccando le ombre più fitte, i mattoni che mai avevano udito voce umana, ma solo il fischio dell’acciaio dei binari quando venivano attraversati dai treni ad alta velocità. Qualcosa scattò e l’intero tunnel si scosse, come un orso dopo il letargo. Nella parete si aprì un passaggio, dal quale proveniva un’altra luce ballerina, come quella della candela magica, ma più forte, che investì l’intero corpo della donna. Solo allora, vedendola nel chiarore, mi accorsi che sotto il mantello era nuda. La sua pelle era chiarissima, superficie lunare. Con un sorriso dolce, mi prese la mano, io la presi a mia madre e, sotto forma di catena umana, entrammo nel passaggio.

Quando la luce mi accarezzò, fu come ricevere un bacio o come mangiare un’immensa torta ricoperta di panna senza pensare al brutto mal di pancia che verrà dopo. Tutto, in quella luce, era meraviglioso. Camminammo in uno spazio che non saprei definire, che a stento vedevo; ci mettemmo un tempo altrettanto misterioso ad attraversarlo, incalcolabile, un tempo sospeso come quello delle lancette ferme sulla mezzanotte. I miei piedi affondavano nelle scarpe come burro e le mie mani, una stretta in quella freddissima della donna e una stretta in quella bollente di mamma, sudavano e si abbandonavano alla pelle dell’altra, sorrette solo delle due strette. D’un tratto la signora della candela si fermò e la luce pian piano diminuì, rendendomi possibile vedere dove mi trovassi. Fu indifferente: comunque non avrei saputo dov’ero e qualcosa mi diceva che mai l’avrei scoperto. Davanti a noi un grande fuoco ardeva, come un falò da spiaggia. Intorno ad esso tante altre donne, come quella della candela, coperte da mantelli pesanti, stavano in piedi, immobili. Respiravano e basta. La signora prese posto accanto alle sue simili, lasciandomi la mano, che ricadde come morta lungo il mio corpo.

Una musica stridente iniziò a suonare, provenendo da chissà dove, dando inizio alla danza delle streghe. Perché ora ne ero certa: quelle donne erano streghe. Le membra candide, scure, di ogni colore, si liberarono dai mantelli e, nudo, quel tutt’uno di carne di donna si mise a trottare intorno alla fiamma viva. La luce del falò lambiva i loro corpi e danzava con loro, allegro e nefasto, vivace come un bambino un attimo prima di sbucciarsi un ginocchio. La musica non suonava troppo forte, era un lieve sottofondo che destò in me inquietudine. Se fosse stata più forte mi avrebbe dato fastidio, se fosse stata più debole avrei faticato a capire di cosa si trattasse: quel volume di mezzo sembrava insinuarsi direttamente nel mio cervello e, solleticando le terminazioni nervose, mi fece venire voglia di ballare. Ridendo come una matta, saltellai lontano da mia madre e mi gettai in quel cerchio forsennato di ballerine, una versione metropolitana di un quadro di Degas. Come smettere non lo sapevo e non lo volevo: alla luce calda del fuoco mi sentivo rinvigorita. In mezzo a loro, la musica suonava più forte e fu come se una voce possente mi svegliasse da un sonno durato tutta una vita. Sedici anni chiusa in una stanza mi avevano trasformato in una larva di bambina, ora sentivo di essere una farfalla con piedi veloci di una donna.

<Mamma!> Urlai, <Mamma, mamma, vieni, vieni anche tu!> Le mie risate dovettero convincere mia madre a fare un passo avanti, poi un altro, timida come sempre, finché non la vidi sbottonarsi il cappotto. Lo lasciò in un angolo, come l’ombra di quella che era stata fino ad un momento prima di mettere piede nel cerchio. Insieme ballammo per un tempo che mi parve infinito, sospese sull’acqua come libellule. Infine la abbracciai, la strinsi forte e per un po’ girammo in tondo strette l’una all’altra. <Vorrei che morisse, per tutte le volte che ti ha fatto del male. Non voglio scappare, voglio combattere!> Mia madre iniziò a ridere e a piangere insieme, perché dev’essere al tempo stesso drammatico e comico sentire la propria figlia invocare la morte di suo padre nel mezzo di una danza tribale intorno a un falò. <Vorrei che morisse per tutte le volte che gli hai preparato la cena e lui non l’ha mangiata, per tutte le volte che era ubriaco, per tutte le volte che ti ha fatto piangere, per tutte quelle in cui ti ha fatto ridere, ingannandoti, facendoti credere che era un uomo buono. Lo odio! Lo odio! Lo odio!> Le streghe scoppiarono a ridere e poi iniziarono a dirlo con me: lo odio, lo odio, lo odio!

Un coro di voci si amalgamò alla musica imponente e fu come recitare un incantesimo. Un grido di vendetta tramutato in magia. Mia madre si fermò di colpo e notai i suoi occhi umidi incollati alle fiamme. Seguii il suo sguardo e caddi a terra, come se le gambe non fossero mai state attaccate al busto. Le iridi mi si riempirono di fuoco e in quel fuoco vidi bruciare mio padre. La camicia di cotone si consumava e mostrava le piaghe dell’ustione scorrergli lungo tutto il torace. I capelli biondi erano spariti, ora c’era solo una testa glabra e scorticata. Lui non diceva una parola, ma guardava la mamma negli occhi, imperturbabile, come se non si stesse arrostendo, come se tutto fosse rimasto lo stesso. Poi successe qualcosa di stupefacente. Quelle che prima erano donne intorno a un fuoco iniziarono a mutare forma. Sulle loro membra comparvero piumaggi neri e blu, bianchi e marroni, lucidi nei bagliori di quella notte infernale. Le bocche presero ad allungarsi, ad indurirsi e presto divennero becchi con cui iniziarono a stridere. Piedi e mani si tramutarono in artigli squamati e sulle loro schiene spuntarono ali maestose con cui si alzarono ad un metro da terra, sospese nelle loro sembianze ibride, metà donne e metà strigi. Avrei dovuto avere tanta paura, invece provavo solo una sorta di consolazione. Che un gruppo di donne vivesse sotto la stazione dei treni, all’interno di un passaggio segreto tra i mattoni della galleria, era bizzarro e spaventoso; ma se a farlo erano delle creature mutaforma, dei mostri gentili, tutto assumeva un suo specifico senso.

Le donne-rapaci si fecero strette intorno al corpo bruciato di mio padre; le loro ombre proiettavano giganti malformi sul pavimento e sulle pareti del non-luogo in cui ci trovavamo. Poi eccole che si avventavano su di lui. I loro artigli iniziarono a dilaniare le carni di quella figura larvale che aveva contribuito a farmi nascere. I becchi beccarono e pasteggiarono con i suoi occhi e la sua pelle. Nelle fiamme ancora accese, le strigi non si bruciavano, ma attraversavano la coltre di fuoco per raggiungere il macabro desinare. Allora è questo l’Inferno degli uomini violenti. Una caverna sotto la città dove donne-uccello pasteggiano con le loro anime. Chissà com’era fatta la controparte femminile… chissà se l’avrei mai vista. Mi ritrovai con lo sguardo fisso in quello di mio padre, ormai cavo, sanguinante, eppure ancora capace di vedere. Non aveva urlato durante il rogo e non stava urlando ora, però non era morto. Perché le anime non muoiono. I peccatori di Dante gridano e in tutto l’Ade si spargono le loro voci agonizzanti: piangono perché le loro menti sono ancora capaci di ricordare le malevole azioni compiute in vita. Cercano di giustificarle senza sosta, preda di un senso di incomprensione che li divora. Mio padre neanche ci stava provando a giustificare quello che aveva fatto, a trovarvi una spiegazione, un capro espiatorio. Se ne stava lì, fermo, a farsi divorare, come se neanche glie ne importasse.

E allora capii che non aveva importanza la vendetta. Un uomo come lui non crede nelle streghe e negli urli di guerra, non crede nelle lance delle amazzoni e nei gridi di liberazione. Ad un uomo come lui le lacrime di mia madre non sono mai risultate visibili e la rabbia di sua figlia era solo un fastidio, come le mosche d’estate. Che noi lo odiassimo o meno, per lui, non aveva importanza e rimandare la sua punizione al momento della morte avrebbe voluto dire fargli vincere la partita. Rimasi a terra, sdraiata sul pavimento di quella caverna scavata nelle gallerie della stazione, priva di forze, senza sapere dove far ribollire la mia collera. I truculenti rumori del banchetto scemarono. Vidi le streghe riunirsi tutte intorno a me, rompere il cerchio per crearne uno più piccolo, che contenesse un fuoco ancor più scottante di quello del falò. Mi diedero la forza, lo sentii, attraverso le loro piume sporche di sangue. Mia madre faceva parte di loro, era un tutt’uno con quella strana energia. L’odio che stavo provando iniziò a caramellarsi, a sciogliersi nello zucchero. Quando mi alzai in piedi, tutto vorticò. In basso giaceva il cadavere carbonizzato e martoriato, nero e rosso, come una coccinella stropicciata. Mia madre lo osservava immobile, muta. Poi alzava gli occhi su di me e sussurrava delle parole che mi arrivarono distanti.

Mi svegliai di soprassalto. Sentivo la testa bruciare e la fronte era tutta sudata. Mia madre dormiva ancora, accanto a me, i nostri zaini premuti contro la panchina. La stazione adesso era popolata da qualche pendolare. Guardai l’orologio e lessi le cinque del mattino. Svegliai la mamma con dolcezza, anche se mi sentivo scossa, scompigliata, e tutto puzzava di bruciato. <Mamma, ti ricordi delle strigi?> La mia voce doveva assomigliare a quella di una persona in preda al delirio, perché la mamma mi abbracciò forte e mi disse che era stato solo un brutto sogno. Ma in bocca sentivo che non era vero: un sogno, sì, ma vicino ai confini della realtà. Mi guardai le mani e vidi che erano sporche di terra, di polvere, una scheggia di legno mi si era infilata nel pollice. Ma era così bello sentirsi stringere dalla mamma… così giusto. Giusto… Feci passare un po’ di tempo prima di alzarmi. La mamma mi guardò accigliata, poi lanciò un’occhiata al tabellone delle partenze. <Dove vai? Manca mezz’ora al primo treno.> Io le presi una mano. <Non partiamo subito. Non voglio fuggire come se la colpa fosse nostra.> Lei non capì, all’inizio, poi vidi i suoi occhi cambiare, prendere una sfumatura diversa di verde, che forse rubò dalle prime luci dell’alba. Insieme ci avventurammo fuori dalla stazione, mano nella mano, coese come lo erano state le streghe intorno al loro grande falò.

<Mamma, secondo te le streghe esistono?> Lei mi sorrise, perché quella era la domanda di una bambina, ma non di una bambina spaventata. <Solo da mezzanotte all’una; quella è l’ora delle streghe, lo sapevi?> L’ora delle streghe vien di notte e con il giorno porta via la paura delle donne come me, delle donne come la mia mamma. Alla stazione di polizia ci offrirono il caffè e poi presero in carica la denuncia. Mamma chiamò il suo avvocato e poi avvertì la nonna che quella sera saremmo andate a dormire da lei. L’ora delle streghe. L’ora del coraggio. Ora potevamo fare qualunque cosa; ora ce la sentivamo di ballare la nostra prima danza intorno al fuoco.

FINE

La Legge 19 luglio 2019, n. 69, si propone di rafforzare la tutela delle
vittime di maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni,
connessi a contesti familiari o nell’ambito di relazione di convivenza
(violenza domestica e di genere).

La Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità promuove il servizio pubblico del 1522 , un numero gratuito e attivo 24 h su 24 che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per maggiori informazioni, visita il sito https://www.1522.eu/.

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