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Grandi speranze, il bildungsroman gotico di Dickens

Grandi speranze, il bildungsroman gotico di Dickens

Quando si nomina Charles Dickens, “il romanziere dell’età vittoriana” e “l’uomo che inventò il Natale” sono gli epiteti che presto lo raggiungono lungo i binari delle associazioni mentali. È vero che i suoi romanzi hanno preceduto e accompagnato il regno della Regina Vittoria; ed è pure vero che il Natale ha un peso — narrativo e valoriale — non indifferente nella sua produzione. Con It’s okay to be classic scoprirete che Dickens è molto più di Oliver Twist e che Grandi speranze è più vicino a una giornata spettrale di ottobre che allo spirito festoso di dicembre. Dopo Jane Austen e Northanger Abbey, è il turno di incontrare un altro ‘mostro’ della letteratura e quale periodo migliore se non il mese di ottobre?

Le ‘grandi speranze’ di Philip Pirrip: benedizione o condanna?

«Pirrip era il cognome di mio padre e Philip il mio nome di battesimo, ma la mia lingua infantile non riuscì a cavarne nulla di più lungo o più esplicito di Pip. Sicché cominciai a chiamare me stesso Pip e Pip mi chiamarono gli altri.»

Se non fosse per la vita e il terrore che scorrono avvinghiati l’una all’altro nel suo piccolo corpo, quel mucchio d’ossa tremanti che è Pip si sarebbe facilmente confuso con il resto della sua famiglia sottoterra. Nella tetra Vigilia di Natale da cui Grandi speranze prende le mosse, Pip si trova faccia a faccia con una creatura di carne, fango, ferro e rancore che è pronto a mangiarselo vivo per quanto è affamato. È un forzato in fuga e a Pip non chiede poi molto: qualcosa da mettere nello stomaco e una lima con cui liberarsi dai ceppi che porta. Attanagliato dalla paura e dal senso di colpa, Pip obbedisce.

Pur concludendosi in una rinnovata cattura del carcerato senza nome e in un senso di colpa insanabile per Pip, quel gesto egoista e generoso insieme è la prima spinta che porterà la sua vita a prendere un nuovo corso. La seconda arriva con l’invito a casa Satis, la dimora spettrale e senza tempo di Miss Havisham, e quella sarà la più devastante, perché lo introduce alla vergogna della sua condizione sociale tramite Estella, la perfida compagna di giochi a cui è destinato da Miss Havisham.

«E poi gli dissi che mi sentivo infelice, e che non ce l’avevo fatta a spiegarmi con mia sorella e Pumblechook, che erano sempre così duri con me, e che da Miss Havisham c’era una bella signorina terribilmente superba, che mi aveva detto che ero ordinario, e io lo sapevo che ero ordinario, e non volevo essere ordinario, e in qualche modo le bugie erano venute di lì, anche se non sapevo come.»

Un incontro dopo l’altro, l’intenzione di sfuggire alla propria ordinarietà diventa indistinguibile dal desiderio di impressionare Estella, e l’una alimenta l’altro gonfiando di aspettative e sogni di superiorità le ‘grandi speranze’ di cui Pip entra in possesso grazie a un anonimo benefattore. Privo del rimpianto che invece traspare dalla voce della sua versione adulta, il Pip ragazzo si lascia alle spalle la vita umile (ma pregna di significato) che Joe Gargery, il buono e onesto Joe che a Pip ha fatto da padre, fratello e amico, aveva da offrirgli. Pip verrà educato a essere il perfetto gentiluomo e, non è un segreto, lo diventerà — ma si può dire che abbia effettivamente creato la migliore versione di sé?

Pip, un protagonista grigio per un romanzo grigio

L’insofferenza verso ciò che dovrebbe essere per nascita e classe d’appartenenza spinge Pip ad assumere le pose spocchiose di Estella, la cui cattiveria ha messo radici tanto profonde nel suo cuore quanto inarrivabile è l’ideale che si è creato di lei. Pip vuole diventare qualcosa, ma non sa cosa. Allora finisce per diventare niente, perché è questo che la “professione” di gentiluomo comporta. Sperpera denaro, prende le distanze dagli affetti sinceri, diventa presuntuoso e sensibile più all’opinione di chi lo disprezza che a quella di chi lo ama. A conti fatti, le grandi speranze che aveva per se stesso falliscono.

Per quanto rientri nel novero degli orfani dickensiani, il protagonista di Grandi speranze se ne discosta per una caratteristica intrinseca che può apparire come inettitudine, meschinità, gravità o tutt’e tre le cose insieme sebbene in percentuali diverse in punti diversi del romanzo. Pip non è un personaggio positivo (ruolo, quello, che spetta a Joe) e non brilla per purezza d’animo. Gli si addicono le sfumature grigie di un antieroe pentito ma comunque colpevole e per questo umano. Se rimanete in silenzio e ponete orecchio alla voce narrante di Grandi speranze, potrete sentire l’eco del tormento e i segni della stanchezza profonda di qualcuno che deve ancora perdonare il proprio passato.

«Tentavo di nascondermi il più possibile l’influsso che [le prospettive] avevano sul mio carattere, pur sapendo che non era del tutto positivo. Vivevo in uno stato di disagio cronico riguardo al mio comportamento con Joe. La mia coscienza non era affatto tranquilla rispetto a Biddy. Quando mi svegliavo la notte – come Camilla – solevo pensare, con una gran stanchezza nell’animo, che sarei stato più felice e più buono se non avessi mai visto la faccia di Miss Havisham, e fossi arrivato all’età adulta pago di essere il socio di Joe nella vecchia onesta fucina.»

Dickens ha creato un narratore che, nell’evocare i suoi ricordi di ragazzo, li ripercorre come se a portare il peso delle catene di ferro fosse lui e non il galeotto che perseguita la sua coscienza da quella infausta Vigilia di Natale. Seppure Pip finirà per capire gli errori del suo comportamento e a correggerlo prima che sia troppo tardi, non arriva a una vera redenzione proprio a causa del suo perenne senso di colpa. Il suo è un viaggio interiore travagliato che non ha nulla di eroico e che, una volta giunto alla propria fine, non prevede alcuna ricompensa o premio consolatorio. Anzi, se possibile, i suoi fantasmi personali sembrano più vivi che mai.

Il gotico e il grottesco in Grandi Speranze: lo spettro di Miss Havisham e altre stranezze

Oltre a disincentivare qualsivoglia sentimento positivo nei confronti del suo protagonista, Grandi speranze diverge dai romanzi di formazione che lo precedono per un uso più trasparente e meno parsimonioso dell’immaginario gotico. Da scrittore realista, Dickens respingeva qualsiasi forma letteraria che avrebbe potuto fornire una rappresentazione distorta della realtà, ma la necessità stessa di una rappresentazione veritiera della psiche umana richiedeva l’uso del gotico. 

Abbiamo visto come la narrazione in prima persona di Pip comunichi una sensazione di incarcerazione mentale. Ebbene, in linea con la persistenza oppressiva del senso di colpa, in Grandi speranze i morti ritornano o non sono mai stati tali. Non a caso, il romanzo si apre in un cimitero e Abel Magwitch, questo è il nome del carcerato in fuga, appare alla fantasia rampante del Pip bambino come “il pirata tornato in vita, disceso dalla forca e intenzionato a risalirvi per impiccarsi un’altra volta”. Magwitch rappresenta pure il ritorno del padre morto, una figura paterna semi viva che lo insegue con la stessa tenacia di Viktor Frankenstein all’inseguimento della Creatura. Ma in un gioco di doppi in cui Dickens è abilissimo (e che, per amor di sorpresa, non sto qui a rivelarvi) Pip è allo stesso tempo creatura mostruosa e creatore angosciato. Tuttavia, se dovessimo indicare chi, fra tutti i personaggi, è davvero ”mostro figlio di un mostro”, è Estella che sceglieremmo.

«Tu, pietra senz’anima! Tu, cuore di ghiaccio!»

«Cosa?» disse Estella, con la stessa aria indifferente, appoggiata alla mensola del grande camino, muovendo solo gli occhi. «Tu mi rimproveri di esser fredda? Proprio tu?»

«Non lo sei?» replicò furiosamente.

«Dovresti saperlo; sono quello che tu hai fatto di me. Prenditi la lode, prenditi il biasimo; prenditi il successo, prenditi il fallimento; in breve, prenditi me»

Sin dalla più tenera età Estella viene gettata tra le ombre di Casa Satis, il cui nome (satis significa ‘sufficiente’ in latino) è una promessa di soddisfazione ma anche un monito a non chiedere di più. Privata del calore di un affetto incondizionato, l’oscurità della casa diventa il vuoto in cui, inarrivabile, splende di una luce fredda e brillante. Pip, come ogni ingenuo bambino, crede di poterla afferrare semplicemente allungando una mano, ma non sa che quella vicinanza è, appunto, un’illusione. Per quanto Estella non abbia alcun tipo di agency, in quei momenti in cui cerca di allontanare Pip da sé dà motivo di ritenerla cosciente della sua “missione”: portare il male di Miss Havisham sugli uomini.

«Talvolta, quando mutava di continuo, alternando stati talmente contraddittori che non sapevo più che dire o che fare, Miss Havisham l’abbracciava appassionatamente, sussurrandole all’orecchio qualcosa come: «Spezza i loro cuori, mio orgoglio e speranza, spezzali e non aver pietà!»

Nella memoria di Pip Miss Havisham è fata madrina e spirito sofferente che esiste nello spazio senza tempo di Casa Satis. Come reliquia del passato che non scorre, è a metà tra uno scheletro e una statua di cera, un incubo gotico che ha fatto di un abito da sposa la propria prigione. Regina della sua miseria, è circondata da un corteo di parenti che, come avvoltoi, le vorticano attorno in attesa di poter banchettare sul suo cadavere e impossessarsi della sua eredità. Nel suo tentativo di fortificare Estella, Miss Havisham ha finito per creare un potente strumento con cui vendicarsi dell’umanità. Pip, che di Estella finisce per innamorarsi, è purtroppo una vittima collaterale.

Sebbene in un confronto con Miss Havisham è quasi invisibile, c’è un’ultima creatura gotica di Grandi speranze di cui parlare. Si tratta di Wemmick, il curioso impiegato dell’avvocato Jaggers. Wemmick non solo è il responsabile di più di un siparietto comico in questo mare di sciagure, ma nel suo piccolo è un caso di precoce doppio in una singola persona. Mentre il resto dei personaggi di Grandi speranze ha un suo foil in un altro personaggio (Pip in Orlick, Joe in Miss Havisham e in Magwitch, Estella in Biddy), Wemmick è il doppio di se stesso. Freddo e calcolatore come Jaggers in ufficio, ma affabile e premuroso quando è nella sua casa-castello (luogo protetto addirittura da un cannone), Wemmick sta a rappresentare lo sdoppiamento fra pubblico e privato imposto dalle rigide norme della società vittoriana.

Considerazioni finali su Grandi speranze

In Grandi speranze Dickens intesse una trama ben congegnata e una rete di relazioni che chi legge riesce a sbrogliare solo all’ultimo momento utile in una serie di colpi di scena che, tutto sommato, continua a sorprendere. Per quanto ‘piatti’ possano essere, i personaggi secondari sono immediatamente presenti e vivi tanto quanto il riluttante protagonista di questa storia. Se si escludono Joe e pochi altri personaggi, nessuno in questo romanzo è totalmente buono o totalmente cattivo, ed è pure possibile osservare un rovesciamento di valore di certi personaggi che insegna come il bene possa nascere dal male e il male nascere dal bene. 

Con Grandi speranze Dickens ritorna ai tipi e ai temi delle origini ma con un twist più dark e maturo, tipico della sua produzione più tarda. È come se nel suo tredicesimo romanzo avesse messo in prospettiva e ridimensionato quelle idee di progresso, crescita e affermazione di sé di cui i romanzi precedenti erano fieri sostenitori. Figlio di questa visione pessimistica (o profondamente realistica) è un antieroe moderno dotato di un panorama interiore ricco di contrasti. Grandi speranze è o non è un romanzo cupo uscito dall’anima nera dell’autunno?

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