SCRITTURA CREATIVA
L’età fiorita: conversazioni con un geco

L’età fiorita: conversazioni con un geco

Camminando per la strada di sabato sera mi sento sempre malinconica. Un’anima che vaga sotto la luce accecante dei lampioni, la quale non giova affatto al mal di testa che ormai mi assale ogni notte, che non mi fa dormire, che mi ricorda sempre di essermi dimenticata qualcosa… qualcosa di piccolo, piccolo come possono esserlo le chiavi lasciate nelle tasche dei jeans che ho messo a lavare, o come può essere il senso della vita.

Il sabato sera fa proprio quest’effetto. Ti sfinisce e ti fa sentire un leone, preda delle pecore della domenica mattina. Ma alla mia età sono tante, troppe, le cose che ti fanno sentire un leone impaurito. Altre ancora ti atterriscono, tanto da non farti capire quanta distanza ci sia tra il tuo corpo e il marciapiede.

Il sabato sera mi vengono sempre in mente le parole del mio amico Giacomo, che io chiamo “il Geco”. Lui dice che la mia è “l’età fiorita” e ne parla come se non l’avesse mai attraversata, con un distacco bramoso. Cosa ne sa lui? È per questo che lo chiamiamo il Geco: si limita a stare vicino al muro, in un angolo polveroso, che sa di muffa. È uno spettatore della vita che sogna tra le pagine dei suoi amati, maledetti libri. Non come me, come noi, che lottiamo ogni giorno per mantenere alta la nostra reputazione, per sconfiggere le insicurezze, per conoscere il significato del tutto che è il Mondo. A lui, forse, di conoscere il Mondo non glie n’è mai importato granché. Lui ha i suoi amanti e le sue gobbe, in cui si sente al sicuro, in una infrangibile campana di vetro.

Ricordo il giorno in cui lo incontrai per la prima volta. Era chino a scrivere (col tempo capii che non faceva altro, ma altrettanto tempo mi ci è voluto per capire che sbagliavo) e mi disse che stava scrivendo una poesia e che la poesia parlava di me. All’inizio con mi riuscivo a capacitare di come uno sconosciuto potesse sapere di me tanto da scriverci una poesia. Per dedicare una poesia a qualcuno bisogna conoscerlo nel profondo, no? Una poesia si dedica ad un innamorato, ad una madre, ad un fratello… allora gli chiesi chi gli aveva parlato di me. Lui tacque; poi mi guardò negli occhi: è stata la mia diletta Luna, disse. Pensai che fosse uscito di testa, così me ne sono andata via, non pensandoci più.

Poi la sua poesia venne pubblicata e la lessi. Era bella, bellissima, attingevo da quei versi come un uomo trangugia acqua mentre affoga in mare, ma del mio nome non c’era traccia. All’inizio non sapevo se sentirmi offesa o sollevata. Solo dopo, con il tempo, compresi che le parole non erano un regalo solo mio. Quel “garzoncello scherzoso” di cui scriveva eravamo tutti noi. La lettura, tuttavia, mi lasciava perplessa: cosa poteva saperne della giovinezza un gobbo scrittore confinato in un angolo dalla vita, dove non è visto né sentito da nessuno? Dell’adolescenza non ne parliamo proprio! Cosa ne poteva capire? Lo si intuiva che non ne aveva vissuto neanche un minuto, altrimenti non sarebbe stato ad osannarla tanto! È dolore e basta: una pozzanghera che, quando ti bagna i piedi, ti lascia come ricordo solo una brutta influenza. L’adolescenza; “un giorno d’allegrezza pieno”, la definì lui. Tutt’altro: un boccone amaro da ingoiare, ecco la definizione più adatta.

Mentre cammino, stasera, riesco solo a pensare alle volte in cui il trucco non è riuscito a nascondere i miei brufoli, alle maniglie dell’amore che non si decidono ad andare via, agli invaghimenti impossibili, ai rifiuti dolorosi e alle incomprensioni con i miei genitori. Cosa ne sa Geco di tutto questo? Lui riesce solo a parlarti della Luna, quella pare conoscerla come le sue tasche. Riesce solo a starsene attaccato ad un muro, immobile: un’ombra di rettile che ti parla quando vorresti solo che tutto il mondo tacesse per sempre. Eppure, com’è dolce la sua voce.

Ma lui non è l’unico. Tutti gli adulti la pensano come il caro Giacomo. Pensano soltanto a dirti che le guanciotte da porcellino andranno via, che gli amori vanno e vengono, che i brufoli passeranno e che la scuola è la cosa che manca loro di più. Stessero al posto mio, dietro un banco ad ascoltare le lezioni di matematica che non riuscirò mai a capire. Stessero loro ad arrossire vedendo passare quello che credi essere l’amore della tua vita… Proprio non riesco a capire che cosa passa per la testa a quei gechi!

Passeggio e la sera si fa più gelida e tumultuosa. Vedo dei ragazzi che escono da un bar ridendo e penso che forse dovrei tornare da mamma e papà. Ma proprio non riesco a smettere di camminare, senza una meta precisa, in balia delle stelle annoiate e dell’ululare dei cani randagi. Ho troppi pensieri per la testa e i piedi sono felici di sgranchirsi. Passo davanti a una panchina. C’è un senzatetto che dorme rigirandosi nella coperta logora. Non deve concedergli un gran tepore, quel misero straccio. Lo guardo per un po’; chissà se anche lui un tempo si preoccupava di come conquistare una compagna o un compagno di scuola. Chissà se lui c’è andato a scuola. Forse non ha mai avuto un compagno di banco che lo facesse ridere, forse non ha mai sbirciato nei cassetti del proprio papà per trovare una cravatta che lo facesse sentire grande. Chissà se ha mai passato un pomeriggio a studiare per imparare tante cose, come fa Giacomo. Deve essere molto triste vivere senza un compagno di scuola e senza sapere cos’è la Rivoluzione Francese. La parte in cui decapitano tutti è la mia preferita.

Avanzo con i passi, augurando a quel senzatetto, da me improvvisamente guardato come un amico, di trovare per caso un libro di Giacomo e di dargli un’occhiata. Potrebbe piacergli o potrebbe usarlo come cuscino, in ogni caso gli tornerebbe utile.

Mi lascio il senzatetto alle spalle, non prima di avergli posato addosso la mia sciarpa rossa, e continuo a camminare, stringendomi forte nella giacca a vento. Che freddo deve avere, quel bimbo cresciuto steso sulla panchina. La notte pare indugiare a scorrere, come se volesse vedermi proseguire all’infinito. Ed io proseguo, finché non mi trovo di fronte ad un palazzo di uffici. Non è molto grande, forse un piccolo studio notarile. Guardando con gli occhi di chi raramente guarda la notte così da vicino, vedo una luce accesa. Si nota la sagoma curva di un uomo che sta battendo i tasti del computer. È tardi e quel povero estraneo è ancora seduto sulla sua scrivania a lavorare. Mi ricorda il Geco. Lui assumeva la stessa posizione quando era stanco, ma non poteva fare a meno di comporre. Diceva che non c’era riposo per chi narrava i propri sogni. Al tempo non compresi quella frase, ma poi il concetto iniziò a farsi più nitido. L’uomo continua a fissare lo schermo. Non deve essere piacevole restare a lavoro fino a tarda ora ma, come dice sempre mia madre, il lavoro è sacro e, se va fatto, lo si fa. L’atteggiamento dei grandi è sempre orientato verso il dovere. Devi sistemare la stanza; devi lavorare; devi studiare. La vita così assomiglia ad un perenne imperativo, spaventoso e ripetitivo come lo è ogni cosa dettata dalla costrizione.

Continuando il mio percorso, mi rendo conto di essere molto stanca, così decido di sedermi per qualche minuto su una panchina vicino ad un piccolo parco di giostre. Seduti accanto a me ci sono due anziani che si stringono le mani rugose. Prima non li avevo visti, come non si vedono le cose quando si spegne l’interruttore della luce. Guardano il cielo, le guance rugose strette strette per sentire meno freddo, e mi mettono tristezza perché mi rendo conto che l’amore che li unisce tra poco finirà nel Cosmo, a far compagnia alle stelle, le quali già conoscono questa storia. L’hanno sentita dieci miliardi di volte. Loro mi vedono e mi fanno un sorriso che ricambio con immenso piacere. Improvvisamente la tristezza scivola via come la pioggia dalle nuvole. Sorrido perché non vedo l’ora di conoscere anche io l’amore che conoscono loro, ma sono anche spaventata perché penso al momento in cui anche lui finirà a far compagnia alle stelle, alla Luna, la vecchia amica di Giacomo. Forse, un giorno, io e lui ci incontreremo lassù, e ci faremo compagnia, attaccati come gechi alle sue pareti bianche, piene di crateri in cui giocare a nascondino.

Improvvisamente mi addormento, chissà dove, e sogno il dì in cui la mia Età Fiorita finirà. Sento le pupille muoversi dietro alle palpebre stanche ed è come se la sera mi accarezzasse per farmi tremare meno. Nel sonno, la paura si fa terrore e al mio risveglio la notte non c’è più. Sta nascendo l’alba, che mi colpisce il viso, impetuosa. Stranamente non sento freddo e vedo che addosso ho la mia lunga sciarpa rossa, quella che avevo lasciato addosso al senzatetto. I suoi occhi, stanchi della vita passata e curiosi di quella che deve arrivare, si devono essere accorti dei miei, ancor più stanchi del futuro.

Chiamo la mamma e lei risponde. Nella sua voce non c’è preoccupazione, ma un’insolita pace. Mi dice che era stato Giacomo ad avvertirla, informandola che avrei passato la sera fuori, rassicurandola che sarei stata in buona compagnia. Quel ragazzo vestito all’antica a volte mi pare magico, come se fosse frutto della mia immaginazione. Ma la mamma è una donna razionale e se dice che è stato lui a chiamarla mi devo convincere che è tutto vero.

Adesso che vedo il sole, sento i pensieri burrascosi della notte schiarirsi. Con l’arrivo della domenica, tutto è più sereno e non ho più la sensazione che stia arrivando un temporale, non mi sento più un leone divorato dalle pecore. La tranquillità mi avvolge; sento in lontananza delle campane suonare. Guardo verso l’alto e noto che nel cielo rosato domina ancora la Luna. É pallida e sta per scomparire dietro la luce del giorno. Sa che il suo tempo è finito e soffre come se non ricordasse che la notte dopo farà ritorno in cielo.

La fisso per un’infinità di tempo e mi sovvengono le parole di Giacomo:

Cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che percorre la festa di tua vita.

Le ripeto in testa, osservandone le lettere come se stessi tenendo in mano la pagina del suo libro. Seguo il loro ritmo e, tornando finalmente a casa, accompagnata dalla scia di lampioni che si spengono con me, penso che, forse, quel giorno, Geco aveva scritto qualcosa di vero.

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