Milena dà da mangiare ai piccioni

Milena è un’impiegata. Lavora presso uno degli uffici AMA di Roma, in un quartiere benestante, vicino alla fermata Policlinico. Milena ogni giorno parte da casa sua, un appartamento piccolo e arredato come la cameretta di una bambina, prende l’autobus e scende di fronte a Villa Torlonia. Quel pezzo se lo fa sempre a piedi: l’autobus del mattino (come quello del pomeriggio e della sera) è pieno di persone sudate, che puzzano di alito marcio. A Termini, il quartiere più multietnico della città, salgono donne e uomini dal pungente odore di spezie cucinate. Parecchie fermate del centro non portano a bordo nessun passeggero. Per i turisti è troppo presto per prendere l’autobus; i residenti di quegli appartamenti affacciati sul corso non lo prendono l’autobus. Milena è tra le prime a salire, quindi fa parte delle tanto invidiate passeggere che aspettano la propria destinazione da sedute. Nelle orecchie ascolta tramite Spotify della musica ambientale, la stessa che mettono negli ascensori o nelle sale d’attesa dei dentisti, spezzata di tanto in tanto dalla pubblicità.

Una volta scesa davanti Villa Torlonia, Milena, nonostante siano le otto meno un quarto, si ferma ad un bar e si compra un cremino. Mentre cammina per andare a lavoro, lo mangia avidamente, sporcandosi la faccia di panna, mentre nelle orecchie risuona un tiepidissimo assolo di sax. Gli uffici dell’AMA sono vetrate opache su strada, con la serranda che sbuca dal muro in cui sono incastonate, coperte di foglietti, annunci pubblicitari e avvisi affissi da chi ha smarrito un animale domestico. In alto, una striscia rosso scuro riporta il logo della società e la scritta “Ufficio Ta.Ri. Roma Capitale”. Milena butta lo stecchino del cremino per terra (tanto è biodegradabile) e osserva i fogli appiccicati storti sul vetro. Uno riporta la pubblicità di un supermercato, che già diffonde i primi sconti su pandori e panettoni. Milena si rende conto che è il 25 novembre: manca un mese preciso a Natale, ma lei ha già fatto tutti i regali e comprato la cena della Vigilia, riponendola comodamente in surgelatore. L’avrebbe dovuta solo mettere in forno. Manca un mese a Natale e lei non è colta neanche dall’entusiasmo dei preparativi. Più in basso, qualcuno prega i passanti di chiamare un numero scritto a caratteri cubitali in caso vedessero Giasone, un labrador color champagne che il giorno prima ha perso la strada di casa. Tirando su col naso, Milena entra in ufficio: ha mangiato il cremino e deve andare in bagno urgentemente.

Seduta alla sua scrivania, esegue il lavoro di tutti i giorni. Clicca di qua, firma di là, fotocopia questo, butta nel cestino quell’altro. Poi l’orologio di Hello Kitty che tiene al polso, lo stesso che le hanno regalato vent’anni fa per i suoi dieci anni, emette un allegro suono rosa e Milena si prepara ad uscire per la pausa pranzo. Si mette il cappottino bianco, con il bavero striato di cioccolato fondente, prende il suo zainetto e si incammina verso un parchetto comunale in cui va tutti i giorni durante la pausa. Il parchetto è un appezzamento di terra grande circa cinquecento metri quadri. È pieno di panchine, ma sono quasi tutte sfasciate, oppure sono diventate di proprietà dei gabbiani, che si ritrovano per banchettare sugli avanzi lasciati da chi, il giorno prima, è passato di lì per una merenda all’aria aperta. È pieno di immondizia. Milena ci va perché quel parchetto sporco le ricorda che il suo lavoro ha un effettivo senso, specialmente a Roma. Che lei ha un effettivo senso. In effetti Milena ha una grande opinione di sé: anzi, si considera proprio una brava persona. Si può dire che la pausa pranzo è il momento che dedica a se stessa e all’applicazione della sua buona condotta. Si siede sulla solita panchina, che ha una gamba sfondata e che, quindi, pende tutta un po’ verso destra, dandole un’obliqua prospettiva sul mondo. Di fronte a sé c’è il laghetto. Il laghetto è artificiale e mezzo prosciugato. Le sue pareti di cemento sono limose e svelano l’incanto dell’opera umana. Quello che prima era un adorabile specchio d’acqua immerso nel verde, adesso appare come una piscina schifosa, lasciata là in tutta la sua bruttezza. A Milena piace il laghetto. Ogni giorno ci pranza e non è mai sola. Quello è il palcoscenico delle sue buone azioni.

Come in una coreografia provata svariate volte, Milena fa scorrere la zip dello zaino, apre la tasca principale ed estrae un sacchetto gelo. Richiude lo zaino e, a quel doppio sfrusciare metallico di zip che si apre e si chiude, iniziano a posarsi sul laghetto i paffuti piccioni. Tra di loro, anche qualche gabbiano a fare lo spaccone per un po’ di briciole. Milena tira fuori dal sacchetto gelo un panino. È un panino tristissimo: due fette di pane in cassetta del supermercato è un fazzoletto di prosciutto cotto. Tanto lei non lo mangia mai. Ogni volta, vedendo quegli adorabili piccioni, si intenerisce e, immersa nei suoi pensieri cristiani, spezzetta il panino sulle sue cosce unite, finché non è ridotto a un cumulo di briciole di varie grandezze, proprio come Gesù aveva spezzato il pane per i suoi apostoli. Ad una ad una, Milena prende le briciole e le lancia nel laghetto, osservando i pennuti lottare tra loro per aggiudicarsi il pezzo. Lei allora ridacchia e con voce bonaria dice: “Piano, piano! Ce n’è per tutti”. Quando in acqua capitano i pezzi in cui si distingue il rosato del prosciutto, la corsa all’oro si fa più avida che mai e sono quasi sempre i gabbiani a vincere. Milena allunga due dita a pinza verso il cumulo di briciole, prende un granellino di pane e lo lancia, sempre alla stessa distanza, sempre con la stessa forza, l’espressione ameba e tranquilla sul viso.

Ad un tratto, succede qualcosa che la fa arrabbiare. Un cane arriva di corsa, le passa davanti, facendole prendere uno spavento. Lei fa un saltello sul posto e tutte le briciole le cadono di dosso. Anche gli uccelli grassi si spaventano e volano via, in cerca di qualche altro idiota disposto a dare loro tutto il suo pranzo. Milena si alza e insegue a grosse falcate il cane. È un bellissimo labrador color champagne, ma il pelo è macchiato di fango e ha un orecchio morsicato. Con sguardo torvo, Milena osserva la bestia. Il cane la guarda e sembra che sorrida, con la lingua di fuori, come uno scemo. Saltella in giro e sembra voglia attirare la sua attenzione. Milena non ha interesse di giocare con uno stupido cane. Milena stava facendo qualcosa di bello, qualcosa che stava rendendo felici altri esseri viventi: stava dando da mangiare ai poveri piccioni e ai gabbiani del laghetto prosciugato. “Su, va via! Non hai un padrone da cui tornare?”, sbraita Milena, ormai seriamente offesa dalla faccetta allegra di quel cane. Come un molestatore incallito, il cane le salta con le zampe sulle gambe, sporcandole definitivamente il cappotto (non che la cosa le importi troppo). Stufa di quella sceneggiata, stufa di un cane che le ha impedito di fare la sua opera buona giornaliera, Milena afferra la targhetta che il cane porta al collo e legge Giasone. Con tutto il fiato che possiede, dice: “Giasone, vai via!”. Il cane, come un bambino ubbidiente, si scosta da lei e corre in strada.

Milena torna alla sua panchina, davanti a lei il laghetto è vuoto. È triste. Dopo un paio di minuti in contemplazione del niente, Milena si alza e ripercorre la breve strada verso l’ufficio. Una volta arrivata a pochi passi dall’ingresso, la rabbia si ripresenta prepotente. Quel cane, Giasone, è di nuovo lì! Stavolta un suo collega, Marco, lo tiene con un guinzaglio improvvisato: ha usato la cravatta aziendale. Questo gli varrà una detrazione di cinque euro dallo stipendio, la penale per aver rovinato una parte della divisa. Tutto per tenersi vicino quel molestatore a quattro zampe. Che stupido. All’orecchio tiene il cellulare. Milena assiste alla prima parte della conversazione: “Salve? Siete voi i proprietari di Giasone, quelli che hanno messo l’annuncio?”. Pausa. “Sì, sì, l’ho trovato. Sono in via…” Milena è stufa di quella telefonata e rientra in ufficio. Seduta alla sua postazione, si sente una persona vuota. Non ha completato la sua missione. Di solito, dare da mangiare ai piccioni la fa sentire proprio bene, appagata, felice. Quel giorno, invece, seduta alla scrivania, riesce a pensare solo ad una sensazione sgradevole: ha fame.

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