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Yellowface: il nuovo romanzo al vetriolo di R. F. Kuang

Yellowface: il nuovo romanzo al vetriolo di R. F. Kuang

R. F. Kuang ritorna oggi nelle librerie italiane con Yellowface. Dopo la trilogia fantasy della Guerra dei Papaveri e il dark academia Babel, Kuang cambia ancora genere e ci regala una satira dai tratti thriller che punta i riflettori sulle zone d’ombra del mondo editoriale. Con il suo ultimo romanzo Kuang non solo conferma la sua bravura, ma ne approfitta per togliersi pure qualche sassolino dalla scarpa. In Yellowface nessuno riceve un trattamento di favore, men che meno la sua protagonista. Soprattutto la sua protagonista.

Athena è tutto. Lei è solo June

Yellowface inizia con un pancake a notte fonda deciso a occludere le vie respiratorie della scrittrice del momento, Athena Liu. Il fatto che June Hayward, amica-nemica di Athena e inutile spettatrice della sua morte, arraffi il suo manoscritto appena concluso è una conseguenza imprevista e sicuramente non correlata alla mistura di gelosia, invidia e vittimismo che circola nella sua anonima personcina. Povera, povera, June. E la decisione di pubblicarlo con il proprio nome è dettata dal dovere morale di far conoscere al mondo il prossimo capolavoro della letteratura contemporanea. Un gesto di totale devozione nei confronti di Athena e un modo per onorare la memoria dei cinesi che hanno partecipato alla Prima guerra mondiale — il sarcasmo si sente, sì? 

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Facciamo un passo indietro. June e Athena si conoscono da molto tempo. La loro è un’amicizia di convenienza, dettata dalla frequentazione dello stesso ambiente e dalla condivisione dello stesso sogno, nulla più. Presto prendono strade divergenti e speculari: Athena ascende all’Olimpo editoriale prima ancora di farsi un nome, June diventa l’ennesima di una lunga schiera di scrittori e scrittrici che faticano a essere riconosciuti. June prova a conquistarsi la nostra simpatia con ogni mezzo, ma ce l’ha detto lei stessa come stanno le cose. È una narratrice inaffidabile sì, ma trasparente. Quel plico di fogli battuti a macchina è la compensazione per i torti che Athena le ha inflitto, l’unica forma di risarcimento per tutto ciò che le ha rubato per il solo fatto di essere Athena, dunque una giovane donna asiatica di talento, ricca, cosmopolita e probabilmente queer, dunque la favorita dei Grandi Poteri dell’Editoria. 

Su e giù sulle montagne russe: il ritmo sinusoidale di Yellowface

Chiunque prenda in mano Yellowface, chi scrive inclusa, vuole che la truffa di June venga scoperta, vuole che perda e capire fin dove si spingerà, se riuscirà a farla franca e, nel caso, indignarsi per questo. La morte grottesca di Athena Liu e il furto del manoscritto sono la leva che aziona la corsa sulle montagne russe di Yellowface, quello che segue è tutto merito della mente perversa di June e degli ingranaggi ben oleati dell’editoria statunitense. Avanziamo un metro per volta attraverso le varie fasi di lavorazione del romanzo, in un susseguirsi di operazioni che lo rendono più simile a June: banale, vuoto, stereotipato. Vediamo June, ora Juniper Song (qualcuno ha detto esotizzazione?), diventare un’autrice best seller, vincere il favore di pubblico e critica e persino annusare la possibilità di un adattamento cinematografico. 

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A questo punto di Yellowface la sensazione è che continueremo a muoverci verso una salita che non arriverà mai. Niente cedimenti o passi falsi da parte di June, inebriata dal riscontro positivo sui social. Poi la caduta arriva ed è esattamente come la immaginereste: istantanea, fragorosa, spettacolare. Fermi lì, però. Questa non è la fine, piuttosto, è un secondo inizio, un’altra rincorsa verso un’altra salita che porterà a un’altra caduta, ancora più spettacolare della precedente, perché June non può permettere che l’editoria, Twitter, nessuno distolga l’attenzione che ha conquistato (rubato) con le unghie e con i denti. E così riprendiamo velocità in attesa del prossimo lancio nel vuoto di June, in egual misura divertiti e scandalizzati.

Yellowface e la critica al sistema editoriale contemporaneo

Oltre che per l’estrema scorrevolezza di trama, Yellowface spicca per la meticolosità con cui ritrae le dinamiche tipiche del mondo editoriale, inclusa la sua estensione sui social. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un romanzo metaletterario, un libro che parla di un libro (anzi, più di uno) e dell’editoria essendo esso stesso creazione editoriale. Il libro viene strappato di qualsiasi aura mistica mentre ne seguiamo l’avanzamento attraverso la filiera editoriale, dalla fase di editing fino al publishing. Anzi, il suo confezionamento come prodotto viene qui estremizzato nell’ipersemplificazione che June opera sul manoscritto di Athena, pensato per essere una lettura scomoda, come scomodo vuole essere Yellowface per gli addetti ai lavori e non solo. 

«Bestsellers are chosen. Nothing you do matters.»

Nonostante mi renda conto del didascalismo in cui a volte cade, di Yellowface ho apprezzato molto questo bagno di realtà. Se un libro entra a far parte del canone letterario, se finisce per vendere un milione di copie, anche solo se esiste al posto di un altro, è perché qualcuno ha deciso così. Il talento e la dedizione aiutano fino a un certo punto, poi entrano in gioco i fattori di profitto: «Diversity is what’s selling right now. Editors are hungry for marginalized voices». In una scena che oscilla tra l’assurdo e l’estremamente reale, June Hayward si vede scattare una foto in cui la sua etnia appare dubbia. L’intento è chiaro, riuscire a manipolare la percezione dei potenziali lettori e consumatori di origine asiatica. Poco male se, scoprendo che Juniper è solo una ragazza di Philadelphia, rimongono delusi, intanto hanno comprato il libro. 

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La copertina dell'edizione indonesiana di Yellowface, opera di David Ardinaryas Lojaya

La diversità è un asset, l’appartenenza a una minoranza fa guadagnare le case editrici, Kuang non sta inventando nulla. Per June, Athena è stata incoronata dai poteri alti dell’editoria perché token di diversità più che per i suoi meriti letterari. Tuttavia il motivo per cui Athena è sempre stata una candidata ben più papabile di June come beniamina dell’editoria statunitense è pure un altro: il possesso di consistenti quantità di capitale economico, culturale e sociale. In altre parole, una famiglia agiata alle spalle che ha potuto inserirla lì dove conta. 

Kuang lascia giusto qualche indizio sul ruolo che gioca il diverso possesso di capitale in ambito editoriale, fuori e dentro le minoranze. Athena ha frequentato una delle università più prestigiose e costose degli Stati Uniti, ha studiato all’estero e non ha consapevolezza di concetti come “costoso” o “economico”. Al contrario di scrittori e scrittrici con un secondo, terzo lavoro per mantenersi, Athena sì che può permettersi di battere a macchina i suoi romanzi su una Remington e di parlare del processo di scrittura in maniera poetica e assorta. Questo mi sembra privilegio, e a voi?

Ascesa e caduta di Juniper Song: una riflessione sulla cancel culture

Dicevo che Yellowface percorre ogni fase della vita del prodotto-libro, inclusa la creazione della persona pubblica di June come scrittrice e la sua ricezione. Quello che sta dietro Juniper Song è un lavoro artigianale e certosino di messa a punto della celebrità perfetta a cui June contribuisce attivamente online. Partecipa ai discorsi giusti, usa gli hashtag giusti, si espone per le cause che smuovono la fetta di pubblico che mira a impressionare. Il colpo di grazia che mette in ginocchio questo pupazzo di cartapesta arriva proprio su Twitter, il social principe delle polemiche imbastite in quattro e quattr’otto. Il tiro va a segno pur essendo impreciso, ma sui social non importa tanto l’accuratezza quanto lanciare la prima accusa. Il resto verrà da sé.

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In Yellowface Kuang dà la possibilità di vedere la cancel culture, la damnatio memoriae della nostra epoca, dalla parte di chi ne è l’oggetto (in)desiderato. Una volta individuato l’obiettivo da fare a pezzi, la massa non pensante agisce. Tutti sono pronti a gettare fango, a schierarsi, a fabbricare prove e ad alimentare la valanga. “Nessuno sembra mai interessarsi alla verità, o alla possibilità di un risarcimento, o a capire per davvero cos’è successo. È tutto così egoistico e frivolo” (traduzione mia), afferma Kuang a proposito in un’intervista su The Guardian. Kuang denuncia la facilità di polarizzazione nella sua forma più aggressiva e tossica e lo fa attraverso la voce di una persona che, per quello che ha fatto, avrebbe tutte le ragioni di finire nel dimenticatoio. La bravura di Kuang sta nel riuscire a giostrare con il giusto ritmo il continuo rimpallo di ruoli tra chi ha torto e chi ragione, chi è la vittima e chi il persecutore, fino a mettere in dubbio la propria capacità di giudizio. 

Yellowface non è il romanzo che pensate che sia

Avrei dovuto farlo sin da subito, ma lo chiarisco adesso: Yellowface non è un romanzo facile da apprezzare se non si bazzica il settore né June è una protagonista grigia amabile per cui fare il tifo. Yellowface è il ritratto caustico e impietoso delle logiche che governano l’editoria libraria, è un gioco di specchi che vuole una scrittrice di origini cinesi che pubblica la storia di una donna bianca, che pubblica la storia di una scrittrice cinese. Yellowface porta a porsi domande su che faccia ha il privilegio, su chi ha il diritto di raccontare cosa, su come, dietro uno schermo, diamo il peggio di noi stessi e su cosa siamo disposti a fare pur di essere visti. Io vi ho avvisato, Yellowface non è il romanzo che pensate che sia.

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