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Shirley Jackson & Daphne du Maurier

Shirley Jackson & Daphne du Maurier

Shirley Jackson, Daphne du Maurier: dalle origini del gotico all’horror contemporaneo

Il genere horror, che trasversalmente attraversa cinema, letteratura e produzioni televisive, ci ha abituati ad una narrativa prettamente visiva, in cui il mostro, il sangue rosso acceso e le grida dei protagonisti dipingono la tela del brivido. Lo spettatore è trascinato in idealizzazioni dello spavento sempre più simili tra di loro: la casa infestata, il mostro nella cantina, l’assassino mascherato. Si sta perdendo, soprattutto nei grandi blockbuster cinematografici, la raffinatezza della pelle d’oca, l’inquietudine del silenzio, il fulmine a ciel sereno.

Scavando attraverso le decadi, giungiamo all’origine del terrore nella letteratura di massa: il romanzo gotico. Mary Shelley, Bram Stoker, Horace Walpole, Edgar Allan Poe, Sheridan Le Fanu, Jane Austen e Charlotte Brontë sono solo alcuni degli autori e delle autrici che hanno, nel corso del 1800, sviluppato attorno ai loro stilemi narrativi il genere gotico. Caratteristica fondante della gothic tale è la tensione crescente, la lentezza che porta all’esasperazione; lo spavento che non sboccia mai nell’urlo, ma nel pianto isterico, nella pelle d’oca, nella sensazione disturbante di essere osservati da un occhio malevolo ma mai esplicito. L’eleganza della paura, quindi, domina le pagine di questi scrittori e di queste scrittrici, rendendole assolutamente nevralgiche per tutte quelle storie del terrore che, nel corso del ‘900, vorranno sfruttare proprio l’elemento psicologico per creare romanzi del brivido.

Autrici a confronto

L’eredità dei loro predecessori l’ereditano certamente due scrittrici dei primi anni del Novecento: Shirley Jackson e Daphne du Maurier. La prima statunitense, la seconda inglese, entrambe hanno fondato una nuova letteratura che fortemente si ispira al gotico tradizionale, ma raccoglie allo stesso tempo tutta la consapevolezza del XX secolo sulla questione femminile, sulla psicologia freudiana e sulla contaminazione tra generi. Due sono i romanzi su cui mi vorrei soffermare in questo articolo, emblematici del modo di scrivere delle autrici e accomunati da fattori estremamente simili: L’incubo di Hill House di Jackson e Rebecca. La prima moglie di du Maurier. 

L'incubo di Hill House: molto più di una ghost story

L’incubo di Hill House, scritto da Shirley Jackson nel 1959, è un romanzo più facilmente iscrivibile nell’ambito dei racconti di fantasmi. Le famose ghost stories da cui sono stati tratti centinaia di film; le tipiche favole dark che si raccontano con una torcia accesa puntata sotto al mento. Hill House potrebbe essere solo una casa infestata, quella di Eleanor Vace potrebbe essere solo una storia di presenze paranormali e tutto il romanzo potrebbe concludersi in un tipico finale da brivido, dove i personaggi sopravvissuti fuggono a gambe levate dalla magione diabolica. Ma, se fosse così, questo non sarebbe un libro scritto da Shirley Jackson.

Ci bastano poche righe per capire che il libro che abbiamo davanti ha qualcosa in più da raccontarci rispetto ad una banale storia di fantasmi. Eleanor Vace, la co-protagonista del romanzo insieme alla stessa Hill House, vive una misera vita al servizio della sua amata madre ammalata. La morte di quest’ultima farà emergere in Eleanor un vuoto esistenziale presente da sempre nel suo petto, ma mai preso in considerazione, mai analizzato per mancanza di tempo o di consapevolezza. Finita a dormire su una brandina nel salotto di sua sorella, dove lei convive con il marito, Eleanor vedrà nella lettera del professor Montague, il quale la invita a soggiornare a Hill House per tutta l’estate, una via di fuga. 

Nella cupa magione di Hill House, “un luogo non adatto agli uomini, né all’amore, né alla speranza”, Eleanor troverà un’altra prigione, costruita con i materiali più raffinati dalla penna di Shirley Jackson. Sua madre, la deprimente casa della sorella erano state le sue sbarre per trentadue anni e la prima boccata d’aria fuori da quel gas asfissiante si manifesta come un luogo assolutamente inospitale. Ma nel corso della lettura ci renderemo conto di come il vero male, il vero antagonista della storia, non sia Hill House, ma chi vi risiede all’interno. Theodora, un’eccentrica donna di città; Luke, l’egocentrico rampollo che erediterà Hill House; il professor Montague, così distinto e autoritario: questi sono i personaggi con cui Eleanor dividerà il suo soggiorno. Ognuno di loro avrà un ruolo nella presa di coscienza della protagonista, la quale, passando da una chiusa formula sociale ad un’altra, si renderà conto che è la società stessa a non essere adatta a lei.

 

Shirley Jackson vuole dipingere una parabola sulla vita di una donna che soffre di evidenti problemi mentali. Eleanor è timida, paranoica, nevrotica e tendente alla depressione: questo suo modo di essere, derivato da una continua sensazione di rifiuto da parte di chiunque le gira intorno, la porta, infine, a sentirsi in pace solo nell’altro elemento odiato e disprezzato da tutti i personaggi della storia. La casa. Hill House allora diventa una culla, un comodo giaciglio in cui Eleanor può conversare con i suoi spettri, può sentirsi libera di ballare e di urlare, perché sa che le presenze della casa l’accompagneranno a suon di musica. Questa connessione, quasi del tutto priva di terrore, la inquieta e la attrae allo stesso tempo: possibile che in un mondo di vivi, solo i morti riescano ad interessarsi a lei? Jackson ci regala una preziosa riflessione sulla condizione sociale delle donne affette da malattie psichiatriche. Eleanor è destinata a subire le vessazioni del mondo intero, perché non abbastanza affascinante, non abbastanza intelligente, non abbastanza stabile e non abbastanza sicura di sé. Nel giro di poche pagine lei diventa la “povera Nelly”, compatita e marginalizzata persino in un contesto come quello di Hill House, dove l’unione degli esseri umani dovrebbe essere fondamentale per contrastare le storture di quella residenza oscura. 

Lady de Winter: la protagonista senza nome

Le parole “non abbastanza” risuonano tenebrose anche nella seconda opera che oggi prendiamo in esame. La protagonista di Rebecca. La prima moglie, scritto da Daphne du Maurier nel 1938, è una personalità senza nome. Nonostante l’intera storia sia narrata dal suo punto di vista, in prima persona, ella non è neanche in possesso di un nome con cui identificarla, almeno finché non sposa Maximilian de Winter, divenendo lady de Winter. Eppure un altro problema si manifesta: esiste già una signora de Winter, Rebecca, la prima moglie di Maximilian. La voce narrante del romanzo è quindi un’ombra, oscurata dalla presenza parassitaria di una donna sepolta ma, in qualche modo, più presente nella vita di tutti rispetto alla stessa, novella, lady de Winter.

 

Una giovane ragazza senza famiglia si mantiene facendo da dama di compagnia ad un’anziana pettegola, che le fornisce novanta sterline di rendita annua. In un soggiorno a Montecarlo, la fanciulla incontrerà l’affascinante e misterioso Maximilian de Winter, noto a tutta l’aristocrazia inglese come proprietario di Manderlay, tenuta di campagna in cui egli viveva insieme a sua moglie Rebecca. Presentataci come sciatta, ingenua e insignificante, la futura lady de Winter colpirà il solitario e malinconico cuore del signor de Winter, che la sposerà in fretta e furia per condurla a Manderlay. La meravigliosa casa in cui lady de Winter crederà di abitare si trasformerà presto in un incubo, affollato dalla presenza asfissiante di Rebecca. 

Il fulcro di quest’opera è il paragone tra due donne completamente diverse che, tuttavia, si ritrovano a coprire il medesimo ruolo. Rebecca era una donna amatissima, ci viene descritta come bella, elegante, sofisticata e spiritosa. Lady de Winter non può che esserne una scialba copia, un rimpiazzo visto da tutti con cattivo occhio. La pressione sociale che la protagonista del romanzo dovrà subire è una sensazione comune nell’ambito della psicologia femminile. Quante donne si sentono schiacciate dalle forme sociali in cui vengono gettate, fagocitate dall’ansia di essere all’altezza. Negli anni ’30 questa pressione era ancora più indecente rispetto ai giorni nostri, dove comunque non mancano strumenti di manipolazione che fanno sentire moltissime donne inadeguate alla vita stessa. Figlie, madri, moglie che non rientrano negli stilemi desiderati dalla società che le circonda incorrono in forme di paranoia e di ansia costanti, le quali trasformano le loro vite apparentemente perfette in incubi a cielo aperto. 

Ciò che spaventa più del Mostro

Per la seconda volta incontriamo, quindi, una storia che parla di donne. Eppure, dovremmo trovarci di fronte ad un horror, o perlomeno di fronte ad un libro spaventoso. Ma cosa c’è di più spaventoso della pura e limpida realtà? Dei demoni che affollano la nostra mente? Quando guardiamo un film dell’orrore, i mostri che ci vengono mostrati ci spaventano perché nella nostra mente vengono deformati e rimangono per la notte successiva come presenza inquietanti che non ci fanno chiudere occhio. La giacca appesa alla porta, nel buio della notte, ci sembra uno spettro; gli scricchiolii del pavimento ci sembrano passi in avvicinamento; ma quando accendiamo la luce, tutto torna com’era e ci viene solo voglia di ridere di noi stessi. Ma cosa accade quando il mostro non ha una forma? Quando la nostra mente non può rappresentarlo e, quindi, non può esorcizzarlo? È la mente stessa a diventare il mostro, l’incubo che ci tiene svegli. Eleanor potremmo essere noi. La signora de Winter potremmo essere noi. Ingabbiate in un mondo che le ripudia, esse rappresentano tutto ciò che l’uomo teme di più al mondo: il rifiuto sociale, la compassione del prossimo, l’incapacità di essere compreso. 

Come ricalcare il mondo reale all’interno del genere horror, quindi, è possibile e auspicabile. L’opera di Shirley Jackson e Daphne du Maurier, tra l’altro, è perfettamente circoscritta in un contesto sociale in cui tutte le ansia e le paranoie che ancora oggi ci trasciniamo dietro sono state per la prima volta formulate. Il Novecento è il secolo della crisi. Una crisi che, a differenza di quelle passate, come la crisi del Trecento a causa della peste o quella del Seicento a causa della guerra dei Trent’anni o quella dell’Ottocento a causa delle guerre napoleoniche, si racchiude in un solo termine: crisi esistenziale. L’uomo, passate le due guerre mondiali, che hanno portato con sé la manifestazione più chiara dell’abominio morale, si ritrova in una situazione di terrore immobile. La bomba atomica e la guerra fredda sono gli elementi protagonisti di un’umanità che non sa più riconoscere i propri nemici, poiché essi sono troppo grandi e troppo discreti per essere visti, ma abbastanza pesanti da essere percepiti come un oppressione mentale costante. 

Le donne, che vediamo protagoniste di una rinnovata consapevolezza di sé, che porta come conseguenze la marcia per i diritti e il movimento delle suffragette, sono ancora intrappolate in un mondo incapace di cambiare con loro. Mentre le loro menti avanzano, comprendono il loro ruolo nel mondo, non più incatenato ad una visione canonica e patriarcale, la società resta in qualche modo immobile e non asseconda questo desiderio di emancipazione e di libertà. Eleanor e lady de Winter sono l’emblema di tale desiderio ma, frenate entrambe da elementi esterni, esse sono destinate a crollare in una spirale di “follia”, indebolite dalla loro stessa situazione familiare, in cui loro cercano di mostrarsi come il mondo le vorrebbe ma non come loro sono in realtà, e, infine, fortificate in quell’ultimo, shakespeariano, drammatico momento di lucida consapevolezza, additata dagli spettatori-carnefici come isteria e debolezza. Povera Nelly, povera cara lady de Winter! Infine è successo, sono uscite di senno; infine hanno dimostrato che le vere donne sono altro, sono quelle asservite ad un sistema preciso, incapaci di uscire dai binari per paura di essere chiamate pazze. Perché, d’altronde, cosa c’è di più spaventoso al mondo di qualcuno che alza un dito verso di te e ammette davanti a tutti che le tue sono le parole di una persona che ha perso la testa?  

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