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Il mito della bellezza, Naomi Wolf

Il mito della bellezza, Naomi Wolf

Ritorna nelle librerie uno dei testi fondamentali per il femminismo durante gli anni ’90 del Novecento, ovvero Il mito della bellezza, scritto da Naomi Wolf. Il testo era fuori catalogo e lo si poteva trovare solo in alcune biblioteche. A stamparlo in una nuova veste grafica è Tlon, casa editrice indipendente specializzata in filosofia, ed è presentato con una nuova prefazione, in cui dialogano Maura Gancitano, direttrice della casa editrice, e Jennifer Guerra, giornalista, che ha anche pubblicato due testi con loro, Il capitale amoroso e Il corpo elettrico

Il mito della bellezza è un testo affascinante, diviso in otto capitoli, in cui Wolf analizza la realtà e la società in cui uomini e donne sono immersi e lo fa con una matrice propriamente storica. Secondo la tesi dell’autrice, il “mito della bellezza” avrebbe preso piede durante il 1984, anno in cui compaiono le prime pubblicità legate alla cura del corpo e alla bellezza. Questo ha permesso un costante confronto con un ideale che si fa sempre più irraggiungibile e che si radicalizzerà col passare del tempo. Il perpetuarsi del mito determina un’economia totalmente nuova, incentrata sulla performatività e sul perfezionamento di sé attraverso i prodotti di bellezza, portando conseguenze totalmente alienanti e distruttive; ma questa economia rimane indiscriminatamente florida per le stesse immagini che promuove, così perfette da fare sentire chi le guarda in colpa per non esserlo altrettanto, creando un giogo perpetuo che si autoalimenta.

Le tre menzogne del mito

Wolf chiama all’appello tre menzogne vitali, che permettono al mito della bellezza di rimanere in piedi: la prima sostiene che la bellezza sia una qualificazione necessaria per l’ascesa all’interno della società, ma per non causare alcuna discriminazione è importante aggiungere la seconda menzogna, ovvero che la bellezza sia potenzialmente raggiungibile da chiunque con il giusto impegno. Infine, la terza menzogna struttura dicotomicamente la realtà e le possibilità di realizzazione femminili: o si rispecchia il prototipo della self made woman oppure si ricade nello spauracchio della femminista brutta; quindi se la bellezza è necessaria per il proprio riconoscimento, essere brutte significa non esistere.

Wolf chiama all’appello tre menzogne vitali, che permettono al mito della bellezza di rimanere in piedi: la prima sostiene che la bellezza sia una qualificazione necessaria per l’ascesa all’interno della società, ma per non causare alcuna discriminazione è importante aggiungere la seconda menzogna, ovvero che la bellezza sia potenzialmente raggiungibile da chiunque con il giusto impegno. Infine, la terza menzogna struttura dicotomicamente la realtà e le possibilità di realizzazione femminili: o si rispecchia il prototipo della self made woman oppure si ricade nello spauracchio della femminista brutta; quindi se la bellezza è necessaria per il proprio riconoscimento, essere brutte significa non esistere.

In seguito a questo ragionamento, Wolf si concentra su cosa significhi essere una self made woman, concetto che implica possedere la PBQ: Professional Beauty Qualification. Questa serve alle donne sia per rientrare all’interno del mondo del lavoro sia a far capire loro, nel momento del raggiungimento di una certa età, di ritirarsi, perché non propriamente richieste. Il mito della bellezza funziona come uno strumento di tortura, in particolare viene associato alla Vergine di ferro, un sarcofago dentellato in cui la persona viene inserita e, se era fortunata, lasciata morire sul colpo oppure lentamente affamata. Allo stesso modo, tutti i comportamenti sociali richiesti a una donna la stringono lentamente nella loro morsa non permettendole più di vivere e imponendosi su di lei in modo continuo e sfiancante.

Crescita, educazione, sessualità

Wolf struttura il suo testo in step fondamentali per la formazione e divenire di ogni donna: il lavoro, la cultura, la religione, il sesso, la fame, la violenza, condensando a livello storico, politico e sociale tutto ciò che stigmatizza una possibilità di libertà da parte della donna. Lo scopo della società e delle corporation risulta essere quello di fare in modo che le donne abbiano una costante sfiducia nel proprio corpo e nella sua desiderabilità, ma questo processo è indiretto perché in realtà proviene dal modo in cui gli uomini vedono le donne e le sessualizzano, tendendo a proporre un unico modello valido.

Questo conduce al fatto che le donne che amano sé stesse costituiscono una minaccia, più per gli stessi uomini che per le altre donne. Anche e soprattutto a livello sessuale, la donna è obbligata ad assorbire e far sue le fantasie di una società che l’ha oggettificata totalmente e, quando va contro questo modello, la risposta da parte della società è sempre negativa. Anche il tentativo di entrare nell’ambiente lavorativo alla fine è stravolto, perché si è nuovamente inserite in un contesto prettamente maschile, in cui la donna viene sempre anteposta o sfiduciata.

 

Sempre a livello sessuale, l’autrice sottolinea vi sia l’esistenza di tre costanti che portano a una innaturalità dell’espressione della sessualità femminile: la prima è quella di non essere un soggetto di attenzione profonda da parte del padre, che vuole una bella bimba, prototipo di una bambola, ma assegnando il compito educativo alla madre e ad altre figure femminili, così da non darle alcun modello di una relazione sana fra uomo e donna. La seconda costante riguarda l’influenza culturale che colloca le donne al di fuori del loro corpo, facendole sempre sentire inferiori, così da creare un distacco e un timore nei confronti di esso e anche di quello maschile. Infine, “Ogni donna deve imparare da sola, senza nessun aiuto esterno, su come sentirsi sessuale”, quindi l’unico modello a cui può appigliarsi è quello offerto dai mass media e dalla società, e questo indica che non impara sulla sua sessualità, ma come apparire sessuale.

Il difficile rapporto tra alimentazione e corpo femminile

Altro nucleo fondamentale del mito della bellezza è legato al cibo e al rapporto che le donne hanno con esso. Naomi Wolf identifica il momento in cui il cibo è diventato fondamentale per le donne quando il target delle riviste si è spostato dalla moda al corpo, iniziando così a includere sempre più contenuti riguardanti il dimagrimento e il bellezza che esso conferisce al corpo femminile, offrendo un modello tossico. L’autrice sottolinea quanto le stesse riviste instaurino, nella mente delle donne, un senso di colpa costante, derivante dalla incapacità di ottenere un fisico come quello proposto nelle pagine che sfogliano. Questo non blocca le donne dal continuare a comprarle rendendo la sfida contro sé stesse e contro i limiti del proprio corpo sempre più pressante ed estenuante. C’è da dire che il discorso dell’autrice nei confronti dell’alimentazione si fa meno speculativo, affidandosi di più a dati che provengono dal Ministero della Salute e che vengono confrontati con le diete allucinanti proposte dalle riviste. La narrazione è arricchita da cenni biografici, in cui si racconta il processo di cambiamento del proprio corpo durante la pubertà e della percezione esterna da parte di chi circondava l’autrice stessa, portandola dopo anni a un comportamento anoressico.

Lo stare a dieta diventa una gabbia pervasiva perché pone un nemico spaventoso e da cui si deve rifuggire: il corpo grasso, il quale ricade nelle accezioni più spregevoli per la società occidentale, divenendo un deterrente così forte da imporre una serie di significati risolvibili solo nell’asservimento a un’alimentazione quanto più restrittiva, in modo da avere un corpo magro. Perché se si è magre si è belle e se si è belle allora si esiste. Lgrassofobia ricade nella ricerca di dati che evidenziano la negatività e l’insalubrità di un corpo grasso, senza considerare però quanto certi alimenti (es. bibite gassate e junk food) siano strutturali nell’incremento di una determinata condizione, non dipendendo direttamente dalla persona che li mangia, quanto da una società che ne permette la produzione. 

Limiti di un testo come Il mito della ballezza

Il mito della bellezza è di sicuro, sotto tanti punti di vista, un testo attuale e che analizza la realtà in un modo non scontato, spesso illuminante; ma nel 2022 vanno considerate anche le sue grandi pecche. In primo luogo, risulta palese che la trattazione è pienamente occidentale e avulsa dalla considerazione di donne nere e razzializzate, ma anche di quelle facenti parte della comunità LGBTQ+, restituendo una realtà semplicistica e dicotomica. Inoltre, si percepisce in alcuni passi una vena islamofobica da parte dell’autrice. Ad esempio, citando il capitolo riguardante la Religione: “I riti non vengono ancora descritti per quello che trasforma l’Occidente laico in un mondo repressivo e dottrinario come una qualsiasi controparte orientale.” Non prendendo in conto una certa quantità di variabili, fra cui l’illusione costante data dal capitalismo: ovvero che in un sistema del genere vi sarà sempre una parvenza di libertà, per quanto la coercizione sia subdola e impositiva. Il rito, infine, è ritratto unicamente in maniera negativa, disgregando, non sostenendo minimamente la potenzialità che esso può avere nell’unire le persone per mezzo di determinate pratiche. Guerra e Gancitano dialogano a inizio testo, notando come Wolf desiderasse una nuova ondata femminista in grado di eliminare il mito della bellezza e di come si sia già arrivati alla quarta di queste ondate. Ma rimane da chiederci se ciò che si è ottenuto consideri davvero tutte le parti del gioco.  

Tirando le mie conclusioni...

Ho letto il testo due volte nell’arco di tre mesi: una nella veste della sua prima pubblicazione degli anni ’90 e l’altra nella nuova edizione di Tlon. Parlando personalmente mi ritrovo col dire che di queste caratterizzazioni non mi ero accorta nell’immediato, ma è stato sicuramente fondamentale il venire a contatto con varie letture e ambienti legati a tematiche coloniali e queer che mi hanno permesso di elaborare il testo con un rinnovato occhio critico. Rilevante è soprattutto il testo Un femminismo decoloniale scritto da Françoise Vergès. Il mito della bellezza è quindi un testo fondamentale e illuminante, ma consiglio la sua lettura non “a digiuno”, cioè accompagnandola ad altri testi che riprendano alcuni dei suoi punti mancanti, come la rappresentazione delle donne nere, islamiche e facenti parte della comunità queer. 

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