OPINIONISTA
Vivere abitando un corpo grasso

Vivere abitando un corpo grasso

Cosa significa abitare un corpo grasso?

Vivere abitando un corpo grasso significa fare parte di una categoria marginalizzata e convivere con uno stigma che affonda le sue radici nella normazione e nel controllo dei corpi.”

da “Grass*. Strategie e pensieri per corpi liberi dalla grassofobia”

Vivere abitando un corpo grasso

Con una periodicità che ha quasi dell’incredibile, il web viene scosso da polemiche e dibattiti che coinvolgono il tema del “corpo grasso”. L’ultimo esempio lo abbiamo visto lo scorso 21 ottobre, all’uscita del video di “Anti-hero”, singolo di Taylor Swift contenuto nel suo ultimo album “Midnights”.

Hi! It's us. We're the problem, it's us

Partiamo da qui: dalla parola “fat”, grass*. Sebbene ormai questo termine sia quasi universalmente percepito come insulto, le persone grasse se ne stanno riappropriando così come avviene in molte altre comunità marginalizzate. La pratica di riappropriazione dello slur (lo slur è una parola che non è necessariamente riconosciuta come “parolaccia”, può anche trattarsi di una parola d’uso comune come appunto “grasso”, ma che viene usata con scopi denigratori) è uno strumento utilissimo per sottrarre potenza a un discorso che servirebbe a mantenere intatti i ruoli di potere di una società gerarchizzata che pone al suo apice le persone abili, bianche, ricche, eterosessuali e, naturalmente, magre. Dunque se da qui in poi mi vedrete usare la parola “grasso/a/ə”, sappiate che lo sto facendo con cognizione di causa.

La scena incriminata del video di Taylor Swift (ora rimossa) vede la cantante col suo alter ego/doppio di sé in bagno, salendo su una bilancia che non indica il suo peso in cifre ma la scritta “FAT”. La Taylor sulla bilancia viene giudicata dalla Taylor/doppio che scuote la testa guardandola storto. Naturalmente nelle intenzioni di Swift quella scena voleva essere una critica a quella cultura dominante che convince le donne che essere grasse è la cosa peggiore che possa loro succedere. La comunità delle persone grasse e lз alleatз hanno però giustamente messo in luce una serie di considerazioni che Swift e il suo team hanno ignorato nella realizzazione di quella scena. La prima cosa da notare riguarda ciò di cui ho parlato poco più su, cioè l’uso della parola “fat” come slur in un momento in cui la le persone grasse se ne stanno riappropriando in modo così potente, da parte di una persona che si è sempre mostrata attenta alle istanze delle comunità marginalizzate. Come avviene spessissimo nella realizzazione di prodotti mediatici di massa, manca il punto di vista delle persone chiamate in causa da quel termine. Siamo di fronte a un caso di grassofobia, per quanto interiorizzata o involontaria.

Fat queer activism

Anche se questo termine sta entrando prepotentemente anche nel nostro vocabolario, i libri tradotti o prodotti in italiano sulla grassofobia sono ancora troppo pochi, eppure affrontare il tema è necessario. Perché? Perché “la grassezza è l’ultima categoria di persone che nell’Occidente progressista ci si sente liber* di disprezzare e dileggiare”, ci spiega Elisa Manici nell’introduzione di “Grass*. Strategie e pensieri per corpi liberi dalla grassofobia”, un volumetto della collana “BookBlock” di Eris Edizioni. Questo pamphlet di circa 60 pagine (la brevità e l’immediatezza sono le caratteristiche di questa collana) può essere un ottimo punto di partenza per iniziare ad approcciare il tema. 

Il nucleo centrale del testo si può identificare nel “fat queer activism” che pone l’attenzione sulla non normatività (la “queerness” del corpo grasso, e in particolare del corpo grasso femminile (o socialmente percepito come femminile). Non sono certamente solo le donne a sentire la pressione sociale a conformare il proprio corpo a un certo standard, ma è innegabile che i corpi femminili siano quelli che subiscono la pressione maggiore. 

Da dove viene la grassofobia?

Per provare a comprendere come la categoria del genere si sia intersecata e ingarbugliata con la questione del corpo, così come anche con le categorie di razza e classe, ci viene in aiuto Amy Erdman Farrell col suo testo “Fat shame. Lo stigma del corpo grasso”, edito da Edizioni Tlon, in cui approfondiamo la storia della grassofobia per scoprire come dalla fine dell’800 in poi in Occidente la grassezza sia diventata sinonimo di debolezza, mollezza di corpo e spirito. Associata prima alla figura del porco borghese, poi del rozzo migrante, poi del malato incapace di controllarsi, la grassezza è stata usata contro le categorie marginalizzate o percepite come nemiche. 

Negli anni ’20 del 900 la grassofobia dilaga. Fioccano le pubblicazioni che mettono in guardia l’uomo medio dal pericolo del grasso, del flaccidume, dell’indolenza. Sì, perché in questo periodo il grasso inizia a essere associato a una pigrizia che non è solo del corpo, ma che anzi è radicata nella mente delle persone che ingrassano. Incompetenti, inadatte a sopravvivere nel mondo moderno, intorpidite dal denaro, da un comodo lavoro d’ufficio, dalla nuova abbondanza alimentare alla portata di tutti, le persone grasse sono schiacciate da un lato da medici o esperti che le portano a sviluppare reali disturbi fisici, e dall’altro dai media che le ridicolizzano e ne incoraggiano la spettacolarizzazione come fenomeni da freak show

Gli avvertimenti contro una vita troppo grassa erano rivolti sia agli uomini che alle donne, ma c’era un pericolo più imminente per queste ultime, che nel corto circuito mentale che affliggeva alcuni medici dell’epoca, come il dottor Leonard Williams, era strettamente legato al grasso: il femminismo. Ora seguitemi nel ragionamento: se ingrassare è causato dalle nuove comodità dell’epoca moderna, e il femminismo vuole aprire le porte della modernità anche alle donne, la donna grassa non può che essere femminista, non può che aver ceduto alla terribile seduzione del nuovo mondo. In parte quest’associazione così chiara nella mente degli studiosi dell’epoca tra grasso e dissoluzione (e in alcuni casi persino depravazione e criminalità) si spiega con la passione ancora forte da parte degli accademici per la frenologia (quella teoria pseudoscientifica per cui attraverso la conformazione del cranio, e per estensione del corpo, di una persona si comprenderebbero le sue caratteristiche psichiche), ma a ben vedere sembra essere tutto parte di un complesso e arzigogolato tentativo di preservare lo status quo. Il carburante della prima grassofobia altro non fu che una profonda paura del cambiamento.

Il privilegio di "sentirsi grassə"

Torniamo per un momento alle critiche mosse al video di Swift. Pur comprendendo la critica che la cantante fa a una società che l’ha fatta sentire inadeguata e l’ha spinta nel baratro del disturbo alimentare, non possiamo esimerci da una considerazione: se una persona evidentemente magra dice di “sentirsi grassa” vuol dire che non è in grado di riconoscere il proprio privilegio. Anche se tuttз siamo sottopostз al rigido sguardo normativo della società che ci fa sentire tuttз, indistintamente, inadeguatз, ci sono delle evidenze che non possono essere ignorate, cioè quelle che provengono dall’ambiente esterno. Il corpo di Taylor Swift (o chi per lei) è socialmente accettato a prescindere dalla percezione che ne ha lei, e lo dimostrano cose che spesso diamo per scontate, come per esempio il fatto che una persona che ha la taglia di Swift non avrà mai problemi a trovare vestiti adatti a lei, o che non verrà mai fissata con disgusto e riprovazione quando si mostrerà in costume.

Entra in gioco un altro grande nemico della lotta alla grassofobia: la body positivity. Sembra un controsenso, ma questo movimento ha danneggiato la lotta allo stigma della grassezza perché ha rimosso del tutto le istanze politiche che la connotavano quando invece che di body positivity si parlava di fat acceptance.

“penso che la body positivity sull’amarsi sia, oltre una certa misura, tossica, per due motivi. Perché a enunciare il comandamento dell’amore di sé sono quasi sempre donne cis etero bianche che al più possono essere considerate small fat, e che non esperiscono quindi lo stigma e la marginalizzazione di altre soggettività grasse, e quindi risulta difficile credere a questo ticket amore di sé/vita felice/successo. Ma soprattutto, se vivi in un mondo dove tutti e tutto ti dicono che fai schifo e dovresti odiarti, oltre che tentare costantemente di normalizzare il tuo corpo, se vivi in un mondo come il nostro, dove lo stigma è sistemico, non amarsi è perfettamente normale.

da “Grass*. Strategie e pensieri per corpi liberi dalla grassofobia”

Come qualsiasi categoria in cui ci relega la società, e che in tanti casi usiamo anche per proteggerci e fare rete con persone che consideriamo affini, anche quella di grassezza è una categoria connotata socialmente che non può essere “risolta” o “superata” individualmente e che, soprattutto, non può più essere esclusa dalla lotta per la liberazione dei corpi.

Per approfondire:

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