OPINIONISTA
L’affare Roald Dahl: l’inclusione non passa per la censura

L’affare Roald Dahl: l’inclusione non passa per la censura

Modificare i libri di ieri è un'ingiustizia verso i lettori e le lettrici di domani

Roald Dahl è stato censurato. Non ci sono parole più delicate per esprimere un’azione così specifica: Roald Dahl, l’autore di Matilda, Charlie e la Fabbrica di Cioccolato, Le Streghe e tanti altri, è stato censurato.

 

La decisione dell’editore Puffin – affiliato alla Penguin Books e addetto alla pubblicazione di libri per bambini – di modificare termini e a volte interi passaggi dei romanzi dell’autore ha una motivazione che può sembrare nobile: rendere più accessibile la lettura per i bimbi di oggi e più inclusive le storie dell’infanzia create da Dahl; ma il modo di procedere, togliendo e cambiando termini considerati offensivi nei confronti di soggettività marginalizzate, ha fatto discutere animatamente la comunità di lettori e lettrici che con quelle parole ci è cresciuta imparandone i messaggi positivi di gentilezza, amore e accettazione per chi è considerato diverso, senza scandalizzarsi per il linguaggio irriverente dello scrittore britannico.

 

Che sia perché ai tempi la sensibilità verso queste tematiche (body shaming, razzismo e sessismo ndr.) era ancora molto debole, o perché semplicemente agli occhi innocenti di un bambino è difficile che si profili con chiarezza il concetto di “discriminazione”, resta il fatto che passare al vaglio i testi di un autore scomparso da trent’anni e il cui romanzo più recente risale agli anni ‘90 mi sembra una pratica problematica da più punti di vista.

Sensitivity readers: inclusione o revisionismo?

Il modo in cui è avvenuta la revisione postuma sui libri dell’autore è nuovo ma sempre più frequente: i testi sono stati rieditati con l’aiuto dei “sensitivity readers”, un gruppo di editors che vagliano manoscritti non ancora pubblicati per rilevare eventuali parole o passaggi problematici al fine di prevenire le discriminazioni. Le revisioni servono per evitare che i libri riportino stereotipi offensivi che possano urtare la sensibilità di chi, dentro e fuori l’editoria, è già ampiamente discriminato. Da anni si parla del gigantesco gap nell’editoria mondiale che vede pochissime pubblicazioni di persone non bianche, di donne e di membri della comunità LGBTQ+ e, al fine di evitare il fenomeno per cui bisogna “scrivere solo di ciò che si conosce”, un autore può servirsi dei sensitivity readers per avere un parere da parte di persone che fanno parte delle categorie interessate. Questo fenomeno previene scivoloni importanti e aiuta da una parte gli autori, che ampliano i loro punti di vista, e dall’altra i lettori, che non dovranno incorrere in rappresentazioni stereotipate e inaccettabili. 

Ma si può considerare etico cambiare parti di opere risalenti a più di 60 anni fa che sono entrate nei cuori di tantissimi bambini, per di più senza l’autorizzazione dell’autore per via della sua scomparsa? Mi sfugge comprendere come questa revisione coatta sia accettabile in un mondo che fa della libertà di espressione un valore inalienabile, considerando – anche a costo di ripetermi – che i libri risalgono a epoche e contesti diversi da quello attuale ma non hanno di certo perso il loro valore per i bambini di oggi e di domani.

 

Ciò che oggi ci rende capaci di comprendere i limiti del linguaggio di un tempo sono, in primo luogo, tutti gli studi in merito alle discriminazioni quotidiane: grazie ai professionisti che si spendono per fornire dati concreti sul tema e agli attivisti che ogni giorno si occupano di sensibilizzare la gente, la società ha raggiunto un livello tale di comprensione dei disagi dovuti alle discriminazioni che negli ultimi anni del ‘900 non si sarebbe potuto immaginare, e questo livello non può che aumentare! Ma, insieme alla sensibilità, si è risvegliata anche la rabbia di quelle persone che, dopo decenni di soprusi, oggi ritrovano la propria voce grazie ai social media e “facendo rete” riescono a spostare montagne, captando e alimentando l’indignazione del pubblico di massa. La rabbia è legittima, l’indignazione è sacrosanta e alcuni termini sono indubbiamente infelici, discriminatori e offensivi, in un mondo ideale non dovrebbero mai essere utilizzati. Tuttavia una cosa che manca alla schiera dei più accaniti social justice warriors spesso è un fattore fondamentale: l’analisi e la comprensione del contesto.

Qualcuno pensi ai bambini!

Dahl non era uno stinco di santo e i suoi libri presentano personaggi volutamente caricaturali, resi tali apposta per suscitare riso nei bambini che li leggono, sicuramente vi è un bias per cui i cattivi hanno determinate caratteristiche rispetto ai buoni, che ne hanno altre, ma ciò è un riflesso dei tempi in cui ha vissuto l’autore, tempi che pur volendo non possiamo modificare né tantomeno cancellare, in cui le donne facevano solo mestieri subordinati, si guardava all’etnia diversa da quella bianca in maniera ilare e denigratoria e la grassezza era sinonimo di bruttezza e pigrizia, ma negare quest’approccio “superato” ai bambini non li protegge dalle discriminazioni che potrebbero subire nella vita, contribuisce solo a posare sui loro occhi una patina opaca che prima o poi verrà spazzata via dalla verità di una società che ancora non ha imparato il rispetto per le persone a prescindere da chi esse siano.

Questa ossessione verso la cancellazione di parole fonte di dolore la vedo prendere sempre più piede, – io stessa sono stata vittima delle parole quando sono state usate per schiacciarmi, quindi so bene quanto possano far male – ma si parla ancora troppo poco dell’allenarsi a prenderle per come sono: insiemi di lettere per definire un concetto che siamo noi a decidere se ci debba ferire o no; ancor meno si educa ad usare le parole con gentilezza invece che per ferire gli altri, per questo ritengo che nascondere i termini negativi ai bambini non li educhi a nulla ma li renda solo più ignoranti verso realtà che, pur facendo soffrire, sono importanti per maturare il proprio pensiero e la propria morale verso chi ci sta attorno. Leggere un libro e trovare una parolaccia, un insulto, una bestemmia, fa scattare nella nostra testa dei processi di ragionamento che portano dal giudizio sul libro fino a un giudizio sull’autore e accendono la miccia della curiosità verso il contesto in cui ha vissuto, la sua vita, i suoi pregi e i suoi limiti, e che ci permettono di allenare e attuare lo spirito critico: saremo noi lettori a decidere se quell’autore merita la nostra stima, noi avremo l’ultima parola senza che un gruppo qualunque di editor abbia deciso quali sono le parole che possiamo accettare o meno.

 

Temo che tra trenta o quarant’anni i bambini che oggi leggono Dahl con le modifiche di Puffin ne avranno un ricordo felice ma incompleto, non ricorderanno certi termini desueti e un po’ irritanti, magari penseranno che invece era un uomo privo di pregiudizi, progressista per il suo tempo, un uomo che si poteva definire in tanti modi ma di certo non “antisemita”… ed io mi chiedo se valga la pena di appiattire così il discorso su luci e ombre di un autore, tutto pur di renderlo meno controverso, più rassicurante verso una società che non ha ancora capito cosa voglia dire leggere e capire.

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