La magica origine della superstizione

Il termine superstizione deriva dal latino superstitio -onis, composto da stare ‘stare’, col pref. super- ‘sopra’, opposto di religio, sec. XIV.
Di fatti, con superstizione si intende “ogni credenza o pratica che sia in disaccordo con la religione costituita o ne alteri l’equilibrio interno.”
La superstizione, quindi, è qualcosa che, linguisticamente e concettualmente, va contro la religione “ufficiale”. Le superstizioni altro non sono che ciò che resta di culti dimenticati di cui ormai non ci si ricorda nemmeno il nome e che avevano dei simboli completamente diversi da quelli odierni: basti pensare al totemismo, generalmente ricollegato alle popolazioni native americane.

Molte di quelle che oggi sono superstizioni estremamente diffuse nella penisola italica, sono legate ad oggetti che, ad un primo sguardo, sembrerebbero totalmente casuali; invece basta andare indietro coi tempi e lasciare che la religione antica si mescoli con l’incredibile capacità dell’uomo di creare simboli carichi di significato per riuscire a districare la matassa.

La superstizione nell'Enciclopedia Treccani

Come L’Enciclopedia Treccani spiega:
“Dal punto di vista fenomenologico si distingue tra le superstizioni a seconda della forma di religione da cui traggono origine. […] si può constatare che a tutt’oggi sopravvivono superstizioni che rispondono a una forma animistica della religione (per es., la credenza di geni, spiriti, demonietti, fate, che interverrebbero negli affari spiccioli della vita quotidiana e di fronte ai quali sarebbe necessario osservare un comportamento particolare), altre in cui domina un orientamento magico (come nelle fatture, o nei riti di propiziazione, per es., per l’inaugurazione di una nuova casa ecc., o nell’attribuire facoltà particolari a determinate persone, indovini, guaritori, streghe ecc.). Le superstizioni relative ai sogni, ai numeri speciali, a certe materie ecc. sono spesso residui di concetti una volta organicamente appartenuti a religioni più antiche.”

Ora che abbiamo più consapevolezza di cosa sia effettivamente una superstizione, è arrivato il momento di sbrogliare i nodi del tempo e cercare di capire come il passato magico dell’umanità riesce ancora oggi a insinuarsi nel nostro presente tecnologicamente avanzato.

Il gatto nero, da divinità a famiglio a superstizione

Al giorno d’oggi il gatto nero è visto come portatore della sfortuna più profonda, soprattutto se malauguratamente decide di attraversare la strada davanti agli occhi di qualche malcapitato di turno. L’origine di questa diceria stradale risale all’epoca in cui si andava a cavallo. Pare infatti che, se un gatto avesse attraversato all’improvviso la strada, il cavallo avrebbe potuto spaventarsi e disarcionare il cavaliere.

Allontanandosi dai campi della praticità, in alcune religioni antiche il gatto è presente come divinità o, più in generale, come portatore di presagi. In particolare gli antichi egizi veneravano tutti i gatti, neri e non, e addirittura la dea Bastet (dea della casa, dei gatti, delle donne, della fertilità e delle nascite) veniva spesso raffigurata come una donna con la testa di un gatto nero.

In Giappone e vari Paesi dell’Asia i gatti neri sono considerati portatori di buona fortuna. Secondo una superstizione diffusa nel periodo Edo, i gatti neri possono curare la tubercolosi e tenere lontane le preoccupazioni d’amore.
Similmente, una credenza scozzese vuole che, se mai si vedesse un gatto nero camminare nel portico di un’abitazione, allora l’animale sarebbe sicuramente portatore di prosperità per colui che vi abita.
Una rima in lingua gallese recita: «Cath ddu, mi glywais dd’wedyd/Un fedr swyno hefyd/A chadw’r teulu lle mae’n byw/O afael pob rhyw glefyd.» Ossia: «Ho sentito dire che un gatto nero/Tiene lontani i malanni/E tiene al sicuro la tua casa/Dall’influenza mortale della febbre.»

Paradossalmente, è anche vero che nella mitologia celtica esistono creature demoniache e mostruose, chiamate Cat Sìth, che hanno l’aspetto di un felino e da gattino nero potevano trasformarsi in una creatura enorme e pericolosissima.

Il timore diffuso dei gatti neri era in fin dei conti spesso dovuto al fatto che il loro colore evocava l’oscurità e quindi in un qualche modo erano materializzazione di ciò che è considerato spaventoso nell’immaginario comune. Così, nel folklore medievale vennero considerati streghe sotto mentite spoglie, spie o corrieri di megere e demoni. Queste credenze spinsero persino alcuni papi a ordinare l’uccisione di tali animali durante le feste popolari. Ancora oggi, questi presunti famigli dalla coda sinuosa si accoccolano nel nostro immaginario comune e, sbadigliando, ci guardano aver paura di loro mentre se ne stanno lì a non far niente.

La paura del numero 13

L’odio per il numero 13 è superato solo da quello per il numero 17 (non vi preoccupate, arriveremo anche lì). In realtà, esiste una vera e propria fobia chiamata “triscaidecafobia”, dal greco τρεισκαίδεκα treiskaídeka, “tredici” e φόβος phóbos, “paura” (la paura del numero 13), che vede le sue origini nella mitologia norrena

In un racconto, 12 divinità furono invitate a cenare al Valhalla, una sala da banchetti destinata a tutti i guerrieri valorosi, che si trova ad AsgardIn questo frangente la presenza di Loki, dio dell’astuzia e degli inganni, portò il numero dei partecipanti a 13. Successivamente, durante il banchetto, si scatenò una rissa dove il guerriero più valoroso di loro, Balder, venne ucciso. L’evento ricorda abbastanza chiaramente un’altra cena forse più famosa: l’Ultima Cena, in cui Giuda, il discepolo che tradì Gesù, era il tredicesimo ospite a tavola.

La superstizione dello specchio rotto, oggetto magico e maledetto

Lo specchio ha sempre suscitato una certa fascinazione nel genere umano, sin da Narciso che fece dell’acqua limpida la sua ossessione (d’altronde, se non ci fosse stata l’acqua, non si sarebbe potuto specchiare e innamorare di se stesso), sin negli anni più recenti, quando la regina cattiva di Biancaneve sottoponeva al suo specchio magico ogni giorno il celebre quesito: “Specchio, servo delle mie brame: chi è la più bella del reame?”

Fin dall’antichità lo specchio è stato quindi considerato carico di poteri magiciI Romani pensavano che esso permettesse di osservare tutto ciò che avveniva nelle parti più lontane dell’Impero. Religioni come l’Islam o l’Ebraismo, invece, consigliano di capovolgere gli specchi durante la veglia funebre, per evitare che essi impediscano all’anima del defunto di lasciare il mondo terreno. In Oriente (e soprattutto in Cina) erano fermamente convinti che lo specchio catturasse l’immagine che vi si specchiava; ed, oltre all’immagine, che catturasse anche l’anima, quindi l’essenza, lo spirito della persona, considerati sacri. Rompere lo specchio era considerato un presagio assai funesto perché significava danneggiare quella parte sacra, farle del male, un po’ come avviene nei riti Vudu, quando gli stregoni seviziano con spilloni una bambolina che rappresenta il malcapitato destinatario della sciagurata influenza.

Lo specchio è presente anche nelle pratiche di stregoneria, reali o fantastiche: Caterina de’ Medici divinava attraverso uno specchio “magico”. La regina, non più soddisfatta degli oroscopi che le compilavano gli astrologi, volle vedere con i propri occhi gli avvenimenti che le riservava il destino. Nel castello di Chaumont, fece quindi preparare un appartamento nel quale si doveva svolgere il lungo rito (durato ben 45 giorni), alla fine del quale le sarebbe stato concesso di vedere in uno specchio magico l’avvenire.

E, secondo quanto riferisce un cronista del tempo, la Regina, ottenne il miracolo che attendeva: nello specchio magico vide una scala, intorno alla quale ogni figlio, a turno, fece tanti giri quanti dovevano essere gli anni del suo regno (Francesco ne fece 1, Carlo 14, Enrico 15): dopo di loro, si presentò Enrico di Borbone, il marito di una delle figlie, che fece 22 giri e scomparve. Puntualmente, la profezia si avverò: estintasi la dinastia dei Valois, salì al trono Enrico di Borbone, che regnò 22 anni.

Da dove vengono i 7 anni di sfortuna?

Insomma, lo specchio è un oggetto magico incommensurabile, ma perché romperlo porta proprio a 7 anni di sfortuna?
Una prima ipotesi pare derivi dai materiali preziosi con i quali gli specchi erano prodotti. Alla base avevano uno strato di oro o argento, oppure di rame puro. Lo strato prezioso aveva funzione riflettente e su quello veniva poi sovrapposto il vetro. Di conseguenza, uno specchio costava davvero molto, pertanto romperlo significava perdere parecchi soldi. Pare che per recuperare i soldi persi, si dovesse lavorare per minimo 7 anni!

Una seconda ipotesi vede la nascita di questa superstizione come la conseguenza di un preciso momento storico, avvenuto a Venezia tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. In quel periodo iniziarono a diventare alla moda i grandi specchi realizzati mettendo una lamina d’argento sul retro di un vetro, il che permetteva alle persone e agli oggetti di riflettersi.  Ciò ovviamente solleticò gli aristocratici veneziani che vollero averne uno molto grande e molto costoso nelle sale delle loro dimore. Ed era proprio l’elevato costo economico di questi specchi a spingere i ricchi dell’epoca ad avvisare bene i loro servi circa le conseguenze di una accidentale rottura, perché in quel caso avrebbero dovuto lavorare gratuitamente per alcuni anni a venire. E quale sfortuna peggiore per un servitore che dover lavorare per anni senza ricevere uno stipendio?

Bisogna far caso però che, apparentemente, all’inizio non si specificava quanti anni di sfortuna sarebbero capitati al poveretto, ma probabilmente il “7” si è fatto largo nell’immaginario comune, già ampiamente condizionato da questo numero (sette sono: i vizi capitali, i doni dello Spirito Santo, i chakra, le meraviglie del mondo antico e moderno, i giorni della settimana, ecc).

Passare sotto una scala e la profanazione del sacro

La superstizione secondo cui passare sotto una scala porterebbe sfortuna pare derivare dai significati legati alla figura del triangolo (che viene richiamata dalla scala aperta o poggiata al muro). Sin dall’epoca degli antichi egizi, il triangolo era considerata una figura sacra e romperla in qualche modo era quasi un sacrilegio. Lo stesso discorso vale anche in epoca cristiana: la figura del triangolo, infatti, è fortemente legata al concetto di trinità e quindi passare sotto una scala che ne richiama la forma, significherebbe, quindi, infrangerne la sacralità.

Esistono in realtà anche spiegazioni più profane e meno legate alla sacralità del triangolo. Secondo alcuni, infatti, la superstizione ha origine medievale, epoca costellata di battaglie e attacchi ai castelli. Durante l’attacco alla fortezza, generalmente per riuscire ad espugnarla, si faceva uso di  lunghe scale tenute ferme alla base da soldati. Questi ultimi, purtroppo, potevano essere vittime dei metodi protettivi dei soldati nemici, che versavano liquidi bollenti oltre le mura, così da respingere gli invasori. Stare sotto una scala, quindi, era considerata una posizione “sfortunata”, nonché pericolosa e potenzialmente mortale.

La sfortuna fa 17: la superstizione del numero della sfiga

In ultimo, ma non per importanza, il 17, controparte più disprezzata del 13, condivide con quest’ultimo una fobia vera e propria, l’eptacaidecafobia, dal greco ἑπτακαίδεκα “diciassette” e φόβος phóbos, “paura”, (la paura del numero 17). La sua nota infamia risale all’antica Grecia dove il 17 era aborrito dai seguaci di Pitagora, in quanto era tra il 16 e il 18, perfetti nella loro rappresentazione di quadrilateri 4×4 e 3×6.

Nell’antica Roma, sulle tombe dei defunti, generalmente si trovava la scritta “VIXI” che significa “vissi” (ovvero “ora sono morto”), che è l’anagramma di XVII, appunto il numero 17. E nella battaglia di Teutoburgo combattuta tra romani e germani, le legioni 17, 18 e 19 subirono una sconfitta così dura (vennero letteralmente distrutte) che, da quel momento, questi numeri, ritenuti sfortunati, non furono più attribuiti a nessuna legione. In più, nell’Antico Testamento è scritto che il diluvio universale cominciò il 17 del secondo mese (Genesi 7:11). Con tutta probabilità sono quindi questi i principali motivi per cui il 17 è diventato il numero della disgrazia, così riconosciuto anche nella smorfia napoletana.

Da non dimenticare l’innominabile combinazione del 17 col venerdì, giorno per antonomasia portatore di sfortuna. In questa turpe giornata verrebbero ad unirsi due elementi “sfortunati”: non solo il numero 17, ma anche il venerdì, che viene ricollegato al Venerdì Santo, giorno della morte di Gesù.

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