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Politically correct: il confine tra giustizia e ipocrisia

Politically correct: il confine tra giustizia e ipocrisia

Corsi e ricorsi storici accompagnano da sempre la percezione che la società ha nei confronti di se stessa, delle proprie conformazioni e dei propri difetti. Il XXI secolo ha messo sul piatto tutte quelle problematiche sociali, politiche e culturali che ci trasciniamo dietro da millenni, e che ora chiedono di essere analizzate. Colonialismo, imperialismo, discriminazioni etnico-religiose e identitarie: queste sono solo alcune delle problematiche (per lo più legate al mondo occidentale) che oggi attivismo e protesta stanno cercando di sanare. Il “politically correct” potrebbe essere definito come la bandierina per la società di massa di questo fenomeno: uno strumento dedito a correggere tutti quegli aspetti socio-culturali che per molto tempo sono stati beatamente ignorati a causa della prevaricazione di determinati gruppi sociali rispetto ad altri. Il politically correct ha trovate grande espressione nel mondo del cinema e delle serie TV, per anni dominato indisturbatamente dalla cultura bianca, eterosessuale, cisgender e borghese. Oggi le cose stanno cambiando, seppur lentamente, ma, accanto a tanti passi in avanti, si continuano a compiere enormi balzi indietro. 

La cultura afro e la sua rappresentazione nei media cinematografici

Se per anni lo showbusiness atlantico e europeo è stato governato da mani bianche, così come lo era (e, purtroppo, lo è tutt’ora) anche la politica e la cultura di massa, nel 2023 le cose stanno lentamente prendendo una piega diversa. Negli ultimi anni abbiamo visto una vera e propria corsa alla ripopolazione della televisione e del cinema, fornendo agli spettatori e alle spettatrici volti nuovi, ruoli nuovi e soprattutto rappresentazioni nuove. Mentre era davvero difficile trent’anni fa trovare tanti film e serie TV con attori e attrici protagoniste afrodiscendenti o comunque non caucasiche, oggi fortunatamente il ventaglio rappresentativo si sta ampliando sempre di più.  La differenziazione etnica, religiosa e sessuale all’interno dei media cinematografici è fondamentale perché permette a molte più persone di identificarsi dal punto di vista fisico e culturale nei personaggi della cultura pop. Ultimo esempio di questo cambiamento è rappresentato proprio dai live action Disney (azienda, si sa, molto brava a pararsi il didietro quando si parla di politically correct), i quali, nonostante il loro scarso coraggio sotto molti punti di vista (ancora è impensabile immaginare il protagonista di un film d’animazione Disney apertamente queer), sono almeno riusciti a schivare tutte le polemiche dei “puristi” (razzisti) e a portarci sullo schermo una Ariel nera

Sorvolando sulla già troppo nominata casa di produzione americana, oltre alla Disney tantissime altre major hanno deciso di portare sullo schermo personaggi e personagge che escono dai “canoni” occidentali a cui il mondo è stato per anni abituato. Serie TV come Non ho mai…, dove la protagonista è di nazionalità indiana, o come Grease: The rise of the Pink Ladies, dove la famosissima gang al femminile della Rydell è formata da una ragazza giapponese, una ragazza italo-portoricana e una ragazza portoricana. In ultimo potremmo nominare il famosissimo caso Bridgerton, dove nell’elegante società inglese ottocentesca non ci si scandalizza a incontrare personaggi di etnia indiana o afro. Tutti questi prodotti (e molti altri) contribuiscono a portare una ventata d’aria fresca nella concezione occidentale di cinema e intrattenimento, svecchiando migliaia di stereotipi che per anni hanno rappresentato un problema e sottolineano l’enorme componente razzista che ha controllato lo showbusiness per anni dalla sua nascita. 

Quando il politically correct si scontra con l'appropriazione culturale

Oggi molto spesso sentiamo parlare del fenomeno di “appropriazione culturale”, un difficile costrutto culturale che si trascina dietro cause terrificanti. Dagli albori del cinema di Hollywood fino alla seconda metà del Novecento, era facilissimo vedere sullo schermo attori e attrici bianchi/e interpretare ruoli destinati ad attori e attrici neri/e. Uno dei casi più famosi è nostrano: ricordate Maciste, il famosissimo eroe dei film di forzuti che tanto andavano in voga negli anni ’40? Beh, Maciste è un esplicito caso di blackface. Oppure, pensiamo al più recente Ghost in the shell, dove l’attrice statunitense Scarlett Johansson è stata accusata di appropriazione culturale, visto che il suo ruolo in teoria sarebbe dovuto andare ad un’attrice giapponese. 

Ovviamente l’appropriazione culturale è un fenomeno che va molto oltre l’interpretazione di un personaggio con una determinata provenienza etnica impersonato da un attore o da un’attrice che non rispetta quella etnia. Possiamo parlare di appropriazione culturale anche quando vediamo in un film una cultura rappresentata in maniera macchiettistica e denigratoria o quando, ad esempio, decidiamo di mascherare nostro figlio da nativo americano, con tanto di copricapo piumato e tunica, nonostante il bambino sia bianco. Questi fenomeni nascono tutti da una matrice comune: il razzismo. Fino a cinquant’anni fa il mondo occidentale era pregno di un sentimento razzista nei confronti di tutti quei popoli che venivano considerati “inferiori” rispetto alla “razza” bianca. Soffermandoci sull’ambiente cinematografico, attori e attrici nere non avevano le stesse possibilità di lavorare sui set come le avevano attrici e attori bianchi, perciò se si decideva di girare un film che come protagonista aveva un personaggio afroamericano (che già avveniva molto raramente) quel personaggio veniva interpretato da un attore bianco “truccato”. Gli attori e le attrici nere nei film hollywoodiani potevano ricoprire solo determinati ruoli macchiettistici e stereotipati, come servi e cameriere. Perpetrare oggi il fenomeno dell’appropriazione culturale, anche banalmente travestendosi da Mamy di Via col vento a carnevale non essendo tuttavia di etnia afro, è un enorme problema: significa ignorare i necessari passi avanti fatti dalla società e sottolineare che le persone bianche saranno sempre in grado di ricoprire ruoli di persone non-bianche, che da quei ruoli per molto tempo sono rimaste escluse.

Cosa succede se il politically correct si scontra con l'ipocrisia?

I casi di appropriazione culturale diventano ancora più gravi nel momento in cui ci spostiamo da personaggi di finzione a personaggi storici. Ultimamente è scoppiata un’enorme polemica legata alla docu-serie Queen Cleopatra, uscita su Netflix il 10 maggio 2023. La controversia gira intorno al fatto che per interpretare l’iconica regina egiziana sia stata ingaggiata un’attrice afroamericana, Adele James, la quale tuttavia non rispetterebbe la reale etnia della sovrana. L’Egitto ha addirittura fatto causa a Netflix, poiché, come è stato spiegato dall’avvocato Mahmoud al-Semary, pare che la casa di produzione abbia dato il via libera per la realizzazione di un prodotto seriale afrocentrico. Secondo l’avvocato, infatti, la trama della serie sarebbe lontana dalla vera storia di Cleopatra contraddicendo la storia e promuovendo, così, l’afrocentrismo. A commentare questa polemica internazionale è stato anche l’archeologo Zahi Hawass che al giornale locale al-Masry al-Youm, ha denunciato Netflix per aver “falsificato i fatti storici con un’opera che non è fedele alla storia vera” e in un documentario la fedeltà storica è imprescindibile. Inoltre, la scelta di un’attrice nera per rappresentare Cleopatra, secondo Hawass, è una mossa per “distorcere la storia e riscriverla”. Questa polemica resta comunque molto controversa, poiché l’etnia precisa di Cleopatra è molto difficile da dichiarare con certezza, visto che non si conoscono informazioni per quanto riguarda l’etnia della madre. Sta di fatto che, per denunciare una società come Netflix, oggi è molto rischioso proporre al pubblico un tipo di prodotto (specialmente se documentaristico) in cui l’etnia da rappresentare non viene effettivamente rispettata. 

 Tuttavia, se sulla regina Cleopatra abbiamo ancora un po’ di dubbi circa la sua etnia, invece dell’etnia di un’altra donna della Storia ormai diventata cult siamo più che certi. Nel 2021 sul canale britannico Channel 5 è stata distribuita una serie TV che ha creato non poche polemiche. La serie in questione si intitola Anne Boleyn e, se non l’aveste capito, parla della famosissima moglie di Enrico VIII Anna Bolena. La serie ha destato moltissimo scalpore perché Anna Bolena è interpretata da un’attrice britannica afrodiscendente. 

Senza affrontare la cosa con una stupida e sterile indignazione, andiamo un momento a riflettere sulle motivazioni che hanno spinto la produzione a costruire la serie TV docustorica su un’attrice nera posta ad interpretare una personaggia storica bianca. Le “scuse” che la produzione ha rifilato ai critici di questa scelta sono molto chiare: è stato affermato che si è voluto scegliere un’attrice nera per interpretare una donna di potere così che anche le donne nere potessero finalmente identificarsi in un personaggio di potere nero. Oppure è stato detto che il personaggio di Anna Bolena veicola un messaggio attuale ben preciso: una donna a cui è stata tolta la voce, accusata di essere una strega, rispecchia tutte quelle persone afrodiscendenti a cui viene tolta una voce ancora oggi a causa della piaga del razzismo. 

Ora, se volete seguirmi un momento, analizziamo la cosa insieme. Per prima cosa voglio sorvolare su un’argomentazione sensata ma che lascia il tempo che trova: perché se un’attrice bianca interpreta una personaggia storica nera è tacciata di white washing (giustamente) ma se un’attrice nera interpreta una personaggia storica bianca non è tacciata di black washing? Si potrebbe aprire un discorso sul fatto che è difficile parlare di black washing quando per secoli è stata proprio al cultura afro ad essere stigmatizzata e prevaricata da quella bianca, che quindi non subirebbe un danno grande quanto quello che invece subirebbe la cultura afro, maggiormente penalizzata da un episodio di white washing. Ma non è su questo che voglio soffermarmi. Quello su cui voglio mettere l’accento è l’evidente ipocrisia di queste scelte politiche. 

Politically correct: marketing o giustizia?

Partendo dal presupposto che Anna Bolena è stata tutto meno che una donna realmente di potere, quello che io mi chiedo è: una donna nera ha davvero bisogno di vedere una serie TV su una donna bianca decapitata nel 1500 ma interpretata da un’attrice nera per sentirsi rappresentata? La scelta di assumere Jodie Turner-Smith come Anna Bolena a me sembra più l’ennesimo passo falso; l’ennesima ipocrisia che mette sotto i riflettori una polemica sterile, la quale non fa che accrescere le malelingue delle persone realmente razziste sui social senza apportare alcun contributo alla comunità nera. Quando arriverà il momento in cui una casa di produzione, invece, deciderà di investire denaro per raccontare il biophic di un personaggio o di una personaggia nero/a realmente esistito? Abbiamo ascoltato mille volte la storia di Nelson Mandela, di Martin Luther King, di Angela Davis (e menomale) ma la nostra conoscenza sui personaggi che hanno rivoluzionato la storia della comunità nera (e non solo nera, ma anche asiatica, ad esempio) si estingue pressoché qui. Vi sfido a nominare un personaggio o una personaggia della storia indiana, cinese, giapponese, vietnamita su cui grandi case di produzioni abbiano fatto un film o una serie TV. Il personaggio cinese che noi occidentali conosciamo di più probabilmente è Mulan, così come la nativa americana che riconosciamo con più facilità è Pocahontas: non vi sembra un po’ poco?

Invece di prendere la storia di Anna Bolena (ricordiamolo, una donna bianca, che viene citata dalla Storia solo per aver sposato Enrico VIII e per essere stata fatta decapitare dal marito) e porla sotto una luce controversa e storicamente falsa, magari potremmo riscoprire tantissimi personaggi storici di culture differenti che facciano davvero appassionare le persone appartenenti a quelle culture alla loro storia. Non alla nostra ma interpretata da un’attrice nera. Mi sembra l’ennesimo caso di narcisismo patologico, l’ennesimo protagonismo ingiustificato che crea solo problemi. 

Qualche esempio di storia che non mi dispiacerebbe vedere in una serie TV

Ding Zilin è un’attivista cinese originaria di Shanghai, dov’è nata nel 1936. Professoressa di filosofia all’università di Pechino, la sua vita è stata profondamente segnata dalla morte del figlio, Jiang Jielian, ucciso dall’esercito mentre, sfidando il coprifuoco, si stava recando insieme ad altri ragazzi in Piazza Tiananmen. Dopo la morte di Jiang, Ding ha tentato il suicidio sei volte, per poi affrontare il proprio dolore in maniera diversa. Ding Zilin mise in piedi, sfidando coraggiosamente il governo cinese, un’ampia rete di famiglie che persero figli e figlie nel massacro di Tiananmen. Il movimento, oggi noto come “Madri di Tiananmen”, è valso alla professoressa una candidatura per il Nobel per la pace.

Maya Angelou è stata una grande poetessa e scrittrice afroamericana, tra le più importanti e amate del Novecento. Nata il 4 aprile del 1928 a Saint Louis nel Missouri, negli Stati Uniti, è famosa soprattutto per essersi impegnata a sostenere le lotte dei movimenti per i diritti civili dei neri insieme a Malcom X e Martin Luther King, e per avere scritto sette libri autobiografici di successo in circa cinquant’anni. Quello noto in tutto il mondo è il primo, I Know When the Caged Bird Sings, che racconta la sua vita fino all’età di diciassette anni, e parla di quando Angelou fu stuprata dal compagno della madre. Veniva da una famiglia molto povera, iniziò a lavorare a 15 anni – la prima donna afroamericana a condurre la funicolare di San Francisco –, divenne ragazza madre a 17 anni, e poi lavorò come cuoca, cameriera, attrice, prostituta, spogliarellista e ballerina, viaggiando a lungo in Africa, insegnando all’università, lottando per i diritti degli afroamericani, ricevendo decine di premi e lauree honoris causa e ottenendo fama e rispetto internazionale che la portarono nel 1993 a recitare una poesia durante la prima cerimonia di insediamento del presidente statunitense Bill Clinton. 

L’ascesa di Falco Nero (1767-1838) iniziò nel 1804, quando i rappresentanti della nazione a cui apparteneva (quella dei Sauk, stanziata a est del Mississippi) si svendettero agli Stati Uniti. Contrario a quell’umiliante trattato, Falco Nero guidò una parte del suo popolo contro i bianchi e fu tra i leader al fianco di Tecumseh durante la Guerra angloamericana del 1812. Dopo anni di continue schermaglie, nel 1832 condusse 1.500 guerrieri al di là del Mississippi, conseguendo parziali successi fino al massacro di Bad Axe, che segnò la sua sconfitta (1-2 agosto 1832). Tenuto prigioniero per mesi a Saint Louis, fu poi trasportato in una sorta di tour delle maggiori città statunitensi nel corso del quale divenne una celebrità.
A quel punto decise di raccontare la propria vita pubblicando (con l’aiuto di un interprete) un’autobiografia, la prima di un nativo americano.

Adela Velarde Pérez fu un’attivista messicana che ha combattuto durante la rivoluzione messicana. Figlia di un ricco abitante di Ciudad Juarez, ha capito in giovane età che la sua vocazione era la medicina. Nel 1915 entrò a far parte dell’Associazione Messicana della Croce Bianca ed è diventata l’ideatrice del gruppo rivoluzionario delle soldaderas, donne che guarivano i soldati feriti in combattimento, con alcune di queste che prendevano persino le armi e combattevano, un vasto gruppo di donne che andò sul campo di battaglia durante la rivoluzione messicana. Hanno segnato un ruolo cruciale nella lotta per i diritti dei contadini e delle donne.

Tirando le somme di uno sfogo disordinato

Mi rendo conto che all’interno di questo articolo abbiamo toccato tantissimi punti, che da soli meriterebbero pagine e pagine di analisi! Ovviamente non è questo il luogo per approfondirli in maniera così specifica, ma spero di avervi comunque lasciato degli spunti di riflessione su cui potrete fare poi i vostri approfondimenti. Ciò che desidero passi dalle mie parole è la differenza labile tra sincerità e ipocrisia. Esistono tantissime culture, tantissime Storie con la “S” maiuscola che, per motivi spesso legati ad uno stigma, non sono state approfondite dai mass media come il cinema e il piccolo schermo. Storie che vivono nel ricordo di intere generazioni, che sono colonne portanti di culture tutte da scoprire e da riscoprire. Andiamo sempre più verso un mondo di integrazione, di comunicazione tra realtà diverse, perché quindi affondare le mani sempre nella stessa acqua quando ci sono oceani che aspettano ancora di essere adeguatamente esplorati? Di un’altra serie su Anna Bolena potevamo fare anche a meno, ma di serie TV su personaggi e personagge celate nei meandri dimenticati della Storia (anche recente) ne abbiamo disperatamente bisogno. E spero che un giorno le case di produzione occidentali smetteranno di avere la spocchia di credere che una ragazza nera senta il bisogno di identificarsi in una donna bianca vissuta cinquecento anni fa, perché, sinceramente, lo trovo avvilente. 

2 thoughts on “Politically correct: il confine tra giustizia e ipocrisia

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      Ciao. Articolo interessante e spinosissimo IMHO.
      Credo che in Italia il discorso sia anche molto distorto a causa dei “valori” riguardanti la diversity che indovina, sono molto americocentrici. Il grosso delle produzioni media ci arrivano dagli States e dal Regno Unito, che hanno un passato coloniale e imperialista con il quale fanno i conti a modo loro. Già solo la loro idea di POC da noi non è applicabile, in quanto il razzismo in Europa è stato sempre incentrato molto sulla nazionalità e sulla religione, e meno sulla razza e sul colore della pelle. Approvo molto il discorso di portare nuove narrazioni, raccontando storie che non sono mai state raccontate, invece di riscrivere personaggi famosi. Ma immagino che quest’idea “tiri” poco.

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        Ti ringraziamo per il commento! La percezione italiana ed europea in generale è sicuramente molto diversa da quella anglo-americana, infatti l’articolo mirava proprio a criticare quel sistema lì (anche se siamo portati sempre a farlo tramite uno sguardo esterno, visto che non viviamo nello specifico quella realtà socio-politica). Comunque l’articolo è proprio un appello alla necessità di essere più sinceri e meno ipocriti quando si parla di rappresentazioni diversificate. Ovviamente non ci aspettiamo faccia la differenza nell’immediata praticità, ma magari offre uno spunto di riflessione!

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