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Sono contenta che mia mamma è morta, la recensione

Sono contenta che mia mamma è morta, la recensione

Dopo anni di silenzio, Jennette McCurdy, conosciuta soprattutto per aver interpretato Sam Puckett nelle serie Nickelodeon ICarly e Sam&Cat, ci offre un racconto crudo e privo di qualsiasi romanticizzazione della sua vita da eterna attrice bambina attraverso il memoir Sono contenta che mia mamma è morta (titolo originale, I’m glad my mom died), pubblicato per la prima volta il 9 agosto 2022. Jennette inizia la sua carriera di attrice all’età di sei anni, ma annuncerà il definitivo ritiro dalle scene solo nel 2017. Originariamente, I’m glad my mom died era stato pensato per essere uno show. Si sono infatti tenuti due spettacoli, uno a Los Angeles e uno a New York, con protagonista l’attrice intenta a raccontare la sua infanzia ricca di ombre. A causa della pandemia, le date successive sono state cancellate, così McCurdy ha deciso insieme al suo manager di trasformare lo spettacolo in un memoir, arrivato in Italia grazie a Oscar Vault il 14 marzo 2023.

A dispetto del titolo e della copertina dai colori accesi e un po’ vintage, in cui Jennette tiene in mano un’urna fucsia da cui fuoriescono dei coriandoli, chiaramente provocatoria, Sono contenta che mia mamma è morta non è affatto una lettura leggera o ironica. Jennette era solo una bambina di sei anni quando, pur di far felice la madre, sopravvissuta a un cancro al quarto stadio, acconsente al primo provino. Da quel momento, la sua vita cambierà in modo drastico. La recitazione assorbirà ogni aspetto della sua vita, fino a che Jennette non raggiungerà il punto di rottura.

I’m glad my mom died: una finestra sugli abusi psicologici in una famiglia disfunzionale

“Mi siedo a gambe incrociate davanti alla sua tomba. Guardo a lungo le parole sulla lapide. Coraggiosa, gentile, leale, dolce, amorevole, elegante, forte, premurosa, divertente, autentica, ottimista, giocosa, perspicace e così via… Ma lo era veramente? Mi chiedo. Era almeno una di queste cose?”

Questo memoir ha un prima e un dopo: la vita di Jennette prima della morte della madre, la vita di Jennette in seguito alla scomparsa di quest’ultima. Jennette nasce nel 1992 in una famiglia povera di mormoni non praticanti e cresce a Garden Grove, in California. Alla madre, Debra McCurdy viene diagnosticato un cancro al quarto stadio quando Jennette ha solo due anni, ma riesce a sopravvivere grazie alla radioterapia, la chemioterapia e il trapianto di midollo osseo. 

“Che stupida idiota. Possibile che non mi fossi resa conto di ciò di cui la mamma aveva bisogno? Aveva bisogno che tutti noi fossimo seri, che prendessimo la situazione nel modo più doloroso possibile, che fossimo devastati. Aveva bisogno che non fossimo niente senza di lei.”

Il padre, Mark McCurdy, è un uomo piuttosto assente nella vita dei figli, ma fa due lavori per contribuire al sostentamento della famiglia. Solo dopo la morte di Debra, Jennette verrà a sapere che né lei né i suoi fratelli sono i suoi figli biologici.

“Questi momenti con papà sono carini ma mai niente di speciale. Vorrei sentire con lui la stessa connessione che ho con la mamma. Stare insieme a lei può essere stancante, certo, ma almeno so cosa fare per renderla felice. Con papà, non lo so mai veramente. È meno faticoso, ma anche meno gratificante.”

Sin dalle prime pagine, quella che ci viene restituita è l’immagine di una famiglia totalmente disfunzionale a capo di cui c’è Deb, una donna violenta, manipolatoria, egocentrica e profondamente insoddisfatta della vita che conduce. Per questo motivo, proietta sulla sua unica figlia femmina le sue aspettative e i suoi sogni infranti. Jennette, come tutti gli altri membri della famiglia, appare succube di una madre che fa leva sull’amore e sulla dedizione totale della figlia per controllare ogni aspetto della sua vita. Sarà Deb a spingere Jennette a partecipare al primo provino, per poi trascinarla in tutta una sequela di audizioni, corsi di danza, di canto e di recitazione, durante i quali lei è sempre presente a suggerire alla figlia che espressioni fare o non fare, interrogarle le battute fino allo sfinimento, controllare che non ingerisca troppi cibi grassi. Deb non vedrà mai in Jennette più della bambina di sei anni che ha accompagnato al suo primo provino. Fino all’età di 14 anni la costringerà a usare il seggiolino in macchina, fino ai 16 le farà ancora la doccia. Quando arrivano quei momenti che segnano l’inizio della crescita fisica di Jennette, Deb induce la figlia all’anoressia, in modo da poterle bloccarle la crescita.

“L’unica cosa peggiore di una diagnosi di cancro è una diagnosi di crescita. La prospettiva di crescere mi fa orrore.

[…] la mamma mi ricorda in continuazione quanto sia bello che dimostri molti meno anni  di quelli che ho. «Avrai più ruoli tesoro. Avrai più ruoli.».

Se comincio a crescere, la mamma non mi amerà più così tanto. Spesso piange tenendomi stretta,  e dice che devo rimanere piccola e giovane. Mi spezza il cuore quando lo fa.”

Non c’è un momento in cui Deb non sia una presenza costante e scomoda nella vita di Jennette, che non ha mai pensato alla pericolosità di un atteggiamento condiscendente nei confronti della madre. Il suo unico desiderio è sempre stato quello di farla felice e per raggiungere questo obiettivo era costretta a recitare anche tra le mura di casa, dove Deb sfogava tutta la rabbia repressa nei confronti di un marito che sembra non aver mai amato, le bollette che si accumulano, una vita che le sta scomoda. Un atteggiamento che Jennette ha subito al punto tale da farlo suo e utilizzarlo durante i provini se il ruolo lo necessitava.

“Sto urlando a squarciagola. Fuori di me. Sto urlando che i miei animali di peluche vogliono uccidermi, so che vogliono uccidermi. […] Urlo, urlo, e urlo, finché…

«E stop!» Dice la mamma in tono energico, come fa sempre quando finiamo di provare le mie scene per un’audizione. «Wow Net» aggiunge mentre mi guarda con un’intensità che quasi mi spaventa. «Dove hai imparato a fare così?»

«Non lo so» rispondo, anche se in realtà lo so. So esattamente dove ho imparato a fare così. Ma so che non è il caso di dire alla mamma che per il mio personaggio ho tratto ispirazione dal suo comportamento imprevedibile e violento.”

Quando Jennette, ormai adulta, ha cercato di opporre resistenza al controllo totalitario della madre sulla sua vita, si sono susseguite crisi isteriche, ricatti psicologici e minacce. Ciò che fino a quel momento le aveva unite, cioè la vita di Jennette come attrice, all’improvviso le stava dividendo.  Diventare adulta per Jennette significava avere libero arbitrio sulle sue amicizie, sulle relazioni sentimentali, avere uno spazio tutto per sé in cui potersi conoscere senza l’ombra di Deb che la seguiva ovunque.

“La fama ha creato una frattura tra me e lei, cosa che non pensavo fosse possibile. Lei voleva tutto questo. E io volevo che l’avesse. Volevo che fosse felice. Ma ora che ce l’ho, mi rendo conto che lei è felice e io no. La sua felicità è arrivata a mie spese. Mi sento derubata e sfruttata.”

La seconda parte del memoir segue i passi che Jennette compie in seguito alla morte della madre, che infine soccombe al ripresentarsi del cancro. È un periodo di totale smarrimento per Jennette, che fino a quel momento aveva vissuto unicamente per accontentarla, rendere più sopportabile il suo dolore, e che per farlo aveva rinunciato a scoprire la sua identità. Jennette è costretta a fare i conti con le macerie che la madre ha lasciato dietro di sé, quelle dell’infanzia e dell’adolescenza rubate alla figlia. Sarà un lungo e doloroso percorso che la costringerà a venire a patti con la natura tossica del suo rapporto con la madre, la bulimia, l’ansia sociale e che, infine, la porterà ad abbandonare la recitazione, ma a scoprire tanti altri aspetti della sua personalità. Alla fine, riscoprirà il suo amore per la scrittura, amore grazie a cui troverà la forza di raccontarsi attraverso questo memoir. 

Il lato oscuro della vita da enfant prodige di Hollywood

“Mi sentivo violata, eppure non avevo voce, non sarei mai e poi mai riuscita a esprimerlo. […]

Quando avevo sei anni, mi ha spinta a intraprendere una carriera che non volevo. Sono grata per la stabilità finanziaria che quella carriera mi ha fornito, ma non molto altro. Non ero in grado di gestire l’industria dell’intrattenimento e tutta la sua competitività, i suoi rifiuti, i suoi rischi, la sua dura realtà, la fama. Avrei avuto bisogno di quel tempo – di quegli anni – per crescere. Per formare la mia identità. Per maturare.” 

Il successo è sempre un’arma a doppio taglio, ma se cominci a muovere i tuoi primi passi in un ambiente come quello di Hollywood, la fama ti forma nel modo in cui ti approcci al lavoro, al denaro, alle relazioni interpersonali e nel modo in cui percepisci il tuo corpo a un livello completamente diverso. Attraverso Sono contenta che mia madre è morta capiamo che Jennette è solo una tra i tanti attori bambini che troppo presto hanno subito pressioni, molestie, violenze fisiche e psicologiche dentro e fuori dal set. Hollywood, purtroppo, può vantare una lista molto lunga di casi come questi.

Emblematico il caso di River Phoenix, fratello di Joaquin Phoenix, che negli anni ’90 era nel pieno della sua carriera. Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1993 morì di overdose sul marciapiede davanti al Viper Room di Los Angeles, in presenza del fratello, che tentò invano di salvargli la vita. Jamie Langston, attore che ha interpretato il piccolo Anakin Skywalker in Star Wars: Episodio 1 – La minaccia fantasma, nel 2001 si ritirò dalla recitazione. In seguito a un arresto per guida pericolosa, guida senza patente e resistenza all’arresto nel 2015, la madre rivelò che Jamie soffriva di schizofrenia. Nell’aprile 2016, l’enfant prodige è stato trasferito in una struttura psichiatrica.

Dopo aver ottenuto il successo grazie alla prima trasposizione cinematografica di It, in cui interpretava il giovane Bill Denbrough, Jonathan Brandis è diventato presto un seguitissimo teen-idolo. L’11 novembre 2003, fu trovato privo di sensi, impiccato a una corda di nylon, in un corridoio del palazzo in cui viveva. Morì a soli 27 anni. Altro caso celebre, quello di Lindsay Lohan, che inizia la sua carriera di modella a soli 3 anni e a 10 quella di attrice per la Disney. Dopo il successo ottenuto grazie a Genitori in trappola, Quel pazzo venerdì, Mean Girls e Baciati dalla sfortuna, la Lohan ha cominciato a manifestare degli atteggiamenti di insofferenza e ribellione a cui sono seguiti diversi arresti e ricoveri in rehab, che hanno causato l’inabissarsi della sua carriera.

Concludiamo questa triste lista con un altro dei casi più celebri di Hollywood, quello di Judy Garland, che interpretò Dorothy in Il mago di Oz, film del 1939 diretto da Victor Fleming. Fu proprio sul set del Mago di Oz che Judy, appena sedicenne, iniziò a fare abuso di farmaci antidepressivi, che furono poi la causa della sua morte a soli 47 anni, dopo anni di molestie, pressioni sul controllo del peso, abuso di farmaci e diversi matrimoni falliti.

Cosa ne penso di Sono contenta che mia mamma è morta

La lettura di questo libro non è stata facile, come del resto non lo sono i temi trattati. È difficile immaginare che a subire tutto questo sia stata una persona sola, una donna, perlopiù così giovane. Ma ho scelto di leggerlo, e di proseguire con la lettura, perché sentivo di doverlo alla sua autrice. Per anni Jennette è stata privata del piacere di dedicarsi alla scrittura e ora che ha finalmente potuto fare qualcosa per se stessa, donando al pubblico una parte importante e delicata della sua storia, è giusto che venga letta con la dovuta attenzione.

Ritengo che sia un’autobiografia perfettamente riuscita, con una buona dose di ironia e humor nero che smorza la pesantezza di alcuni fatti descritti. L’ho trovata anche brutalmente sincera, qualità che non sempre è facile trovare in una narrazione in cui la storia è raccontata soltanto da una delle persone coinvolte. Consiglio la lettura di questo libro perché non racconta solo la storia di Jennette, ma racconta anche la storia di tanti altri bambini e bambine che hanno subito gli stessi traumi, che si son trovati intrappolati troppo presto nella morsa letale della fama.

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