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Ora ti vorrei qui: le cicatrici invisibili della dipendenza

Ora ti vorrei qui: le cicatrici invisibili della dipendenza

Nel 2016, Kathleen Glasgow ha esordito nel panorama letterario con E poi ci sono io, romanzo che ha riscosso fin da subito un immediato successo di critica e ha spopolato sulle principali piattaforme social pochi anni dopo, diventando un vero e proprio caso letterario. Il 14 febbraio Rizzoli ha pubblicato Ora ti vorrei qui, il secondo romanzo dell’autrice, che oggi è stata pubblicata in ben 26 Paesi. Un vero e proprio successo di pubblico e critica.

E poi ci sono io: la guarigione di Charlie dall’autolesionismo

E poi ci sono io è un romanzo dalle tematiche molto forti. Violenza sessuale, autolesionismo, depressione, tossicodipendenza e violenza domestica sono i fili conduttori del racconto di Charlie. La vicenda inizia quando Charlie viene ricoverata in un istituto psichiatrico. Noi la conosciamo inizialmente attraverso il suo monologo interiore, perché Charlie manifesta un mutismo selettivo dovuto alla sindrome da stress post-traumatico. Solo dopo, piano piano, inizia a ritrovare la sua voce e le giuste parole per spiegarsi. 

“Sono così vuota dentro, così affamata di qualcosa, che mi sembra che potrei mangiare per giorni senza saziarmi mai.”

Il passato di Charlie ci viene raccontato attraverso dei flashback sparsi per tutta la narrazione e alla fine riusciamo a ricomporre il puzzle della sua vita, tutti gli eventi, anche piccoli, che l’hanno portata all’autodistruzione. Ciò che poi rappresenta una svolta definitiva è la decisione, dopo le dimissioni, di trasferirsi in Arizona, dove, dopo aver vissuto per un periodo in casa dell’amico Mikey, trova lavoro in una tavola calda e riesce a procurarsi una casa tutta per sé. 

La seconda parte del romanzo si concentra fortemente sulla relazione tossica tra Charlie e Riley, il fratello della proprietaria del bar. Alcolista e tossicodipendente, Riley non fa domande, non la giudica, ma rischia di trascinarla a fondo con lui. A tenerla ancorata nei momenti in cui le sembra di stare per mollare di nuovo la presa sarà soprattutto il disegno. 

La storia di Charlie è costellata di cadute, ricadute, incontri sbagliati, incontri fortuiti, un passato doloroso, una situazione familiare tossica, ma è anche, soprattutto, un racconto intriso di profonda speranza. Charlie lascia andare la mano di tutti quelli che hanno rischiato di farla sprofondare di nuovo nel baratro, compresa quella parte di sé così tormentata dal passato. Charlie lascia andare i rimpianti della bambina che era stata, il rancore verso la madre, il rancore verso Mikey ed Ellis e, finalmente, trasforma i suoi pensieri in parole, le sue parole in disegni. La storia di Charlie ci apre una finestra sulla sua esperienza con l’autolesionismo e la dipendenza nei confronti di un rapporto tossico che sembrava incapace di lasciare andare.

In Ora ti vorrei qui, invece, la Glasgow sceglie di analizzare quelle che sono le conseguenze della dipendenza sulla vita delle persone che stanno vicino alla persona che ne soffre. Uno sguardo quindi del tutto diverso da quello personale di Charlie, ma non per questo meno significativo.

Ora ti vorrei qui: il percorso di Emory e Joey

“Perché, quando parliamo di dipendenze, dobbiamo parlare anche dei danni collaterali che causano, ovvero della salute mentale dei ragazzi e degli adulti vicini a chi ne soffre. In che modo la malattia di un’altra persona ha sconvolto la loro vita? Come gestire il senso di colpa legato al volere andare a una festa  o al desiderare un bacio mentre si assiste qualcuno in difficoltà?”

Ora ti vorrei qui cerca di rispondere a queste domande attraverso la storia di Joey, diciassettenne la cui dipendenza emerge in seguito a un tragico incidente d’auto che provoca la morte di Candy, giovane studentessa di Mill Haven. Alla guida dell’auto c’era Luther, che si scoprirà poi uno spacciatore, mentre nel sedile del passeggero Emory, sorella minore di Joey, che invece sedeva in preda a un’overdose nei sedili posteriori insieme a Candy.

La morte di Candy e la dipendenza di Joey segneranno un punto di rottura nella vita di Emory, i cui occhi rappresentano la finestra attraverso cui conosciamo la storia di Joey. Dopo il ritorno del fratello dal centro di disintossicazione, Emory verrà gravata da se stessa e dai genitori del compito di fare da angelo custode del fratello maggiore in via di recupero. Anche la vita a scuola diventa un incubo perché si sente giudicata per essere sopravvissuta all’incidente, viene allontanata dalle amiche di sempre e anche il ragazzo per cui prova dei sentimenti non sembra essere intenzionato a viverla alla luce del sole.

“Mostrami, vorrei scrivergli. Mostrami al mondo, non lasciare che scompaia.”

D’altronde, Emory si è sempre sentita invisibile, un puntino minuscolo nel grande progetto di vita dei genitori. Abigail, la madre, una nota avvocatessa la cui famiglia ha costruito Mill Haven, la quale ripone nei figli grandi aspettative. Neil, medico del pronto soccorso, un padre molto affettuoso ma anche lui poco presente a causa dei massacranti turni in ospedale.

“In questa casa a volte mi sembra di non esistere, perché non sono né bella ed estroversa, come Maddie, né un problema, come Joey. Sono soltanto io. Quella brava.”

Emory è tutto quello che i genitori hanno sempre visto in lei: una ragazza timida, educata, una studentessa diligente che non ha mai dato problemi, una sorella premurosa a cui si può affidare il compito di assicurarsi che il fratello non ricada nel circolo vizioso della dipendenza.

Ma come si concilia la necessità di aiutare un fratello in difficoltà e il senso di colpa derivato dal desiderare di essere anche tu importante per qualcuno? Non perché si è belli, non perché si è fonte di guai e preoccupazioni per la famiglia, ma perché semplicemente sei anche tu una persona che merita di essere felice, di tenere la mano del tuo fidanzato in pubblico, che ha diritto di piangere per la morte di una ragazza che ha vissuto insieme a te un evento tragico, che ha diritto anche a superare quel momento per poter vivere la propria vita.

“Non puoi mettere la tua vita in pausa per qualcun altro, capisci? A volte devi semplicemente fare quello che ti rende felice. E poi, se non dai una mano innanzitutto a te stessa…come puoi aiutare gli altri?”

La richiesta di aiuto di Emory è un urlo soffocato dal senso di colpa, dalla convinzione di non essere abbastanza importante da anteporre i suoi bisogni a quelli di un fratello in difficoltà, di una famiglia che si sforza di non cadere a pezzi, di una comunità dove chi ha una dipendenza e dorme per strada viene definito “spettro”.

“Penso che dovremmo sforzarci tutti di essere più generosi, perché in fondo condividiamo la stessa casa. Di notte godiamo della stessa potente compagnia della stelle, e ognuno di noi merita di essere trattato con gentilezza, e di sopravvivere. Ognuno di noi merita di essere visto e notato.”

Emory sarà costretta a venire a patti con una realtà che le sta scomoda, ovvero con la consapevolezza che non tutti vogliono essere salvati, che prima di salvare tuo fratello devi prendere in mano le redini della tua vita e stare bene con te stessa, che ognuno riempie i suoi vuoti in modo diverso e che scomparire non significa che tutto diventerà più facile.

Kathleen Glasgow: una voce per gli adolescenti di oggi

“Forse ognuno usa cose diverse per riempire il proprio vuoto. Finché quel vuoto sparisce e se ne crea un altro da colmare.”

Kathleen Glasgow è bravissima nell’esprimere con parole semplici, ma di grande impatto, l’incasinatissimo mondo degli adolescenti, i loro problemi, gli sbagli, la confusione, il senso di non appartenenza e solitudine che a volte si può provare anche in mezzo a una folla.

È bravissima anche nel descrivere senza filtri o giri di parole e le ragioni che possono spingere un adolescente a buttarsi a capofitto sulle droghe. La sensazione di pace che solo l’oblio e la non-coscienza della dipendenza ti dà, quell’attimo in cui non sei più un figlio che ha paura di deludere i genitori, un fratello che deve fare da esempio per la sorella minore, uno studente che non riesce a stare al passo con gli esami.

Quell’attimo in cui tutto perde di significato e ci sei solo tu. Tu e il silenzio, tu e la tua fragilità.

“…questo è il problema degli adulti: vedono noi ragazzi come vorrebbero che fossimo, ci vedono come ciò che non siamo, anziché come le persone che siamo davvero. Ci penso di continuo. Quanto tempo, quanto dolore e quante sofferenze si potrebbero cancellare, se solo accettaste i ragazzi che avete davanti e la smettesse di provare ad aggiustarli? Perché forse aggiustarli è impossibile.”

Le cicatrici invisibili che lasciano le dipendenze e di cui nessuno parla

Quando si manifesta un disturbo comportamentale o di dipendenza, le conseguenze a livello emotivo e psicologico non si limitano a colpire la persona che soffre di tale disturbo, ma tutte le persone per lei significative, famigliari e amici.

Non è facile riconoscere il momento in cui un figlio, un fratello, un genitore, inizia a fare uso di droghe, né altrettanto semplice è ammetterlo a se stessi. Il senso di colpa per non aver saputo riconoscere il problema, la paura di non saper gestire a dovere la situazione, l’imbarazzo a livello sociale che si può provare come naturale conseguenza di determinati atteggiamenti della persona in difficoltà, sono tutti fattori che segnano profondamente gli affetti delle persone che soffrono di questo disturbo. 

Lasciano profonde cicatrici di cui nessuno parla perché, errando, il pensiero comune è che la priorità vada prima di tutto al tossicodipendente. 

Il messaggio che il romanzo vuole lanciare è forte e chiaro: il percorso di guarigione non riguarda solo il paziente, ma tutti quelli che gli stanno accanto, e richiede tanto tempo. Tempo per accettare di aver sbagliato come genitori, tempo per riconoscere il problema, tempo per capire le ragioni dietro all’uso di queste sostanze e anche, spesso, tempo per le ricadute. 

Non esiste un percorso univoco per tutti, non è importante il come ma arrivare a destinazione. In Ora ti vorrei qui l’autrice racconta una storia in cui ci si può immedesimare prima come figli, poi come fratelli, come amici, compagni di scuola e come genitori. Quanto dolore si potrebbe evitare se smettessimo di proiettare le nostre aspettative sui nostri genitori, sui nostri amici, sui nostri figli? Se avessimo la forza di accettare quando qualcuno sbaglia e riconoscere i momenti di difficoltà, in modo da saperli affrontare insieme.

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