OPINIONISTA
Vladimir Nabokov: vita e poetica dell’autore di Lolita

Vladimir Nabokov: vita e poetica dell’autore di Lolita

La ricerca della perfezione e la fragilità della bellezza

Il discusso autore di Lolita Vladimir Nabokov nasce nel 1899 a San Pietroburgo e sin da piccolo entra in contatto con altre lingue oltre al russo: il francese e l’inglese. Quest’ultimo diventerà quarant’anni dopo la lingua in cui scriverà numerose sue opere. Oltre a scrivere romanzi, Nabokov è stato un saggista, traduttore, critico letterario ed entomologo. In questo appuntamento di Voci della Letteratura indagheremo il suo particolare personaggio, che, dopo anni e anni dalla pubblicazione di Lolita, genera ancora scandali e discussioni.

La personalità di Vladimir Nabokov era complessa e sfaccettata, riflesso delle sue passioni in molteplici campi. Nabokov era consapevole della sua abilità letteraria e della sua erudizione, e questo, unito alla sua natura perfezionista, si riflette nella sua prosa che risulta molto ricca e poetica, motivo per cui la sua penna è una delle più apprezzate ancora oggi. La magia delle parole di Nabokov nasce da uno studio profondo della linguistica e spesso nelle sue opere non mancano i giochi di parole, persino in situazioni difficili o surreali. Non è però tutto oro quel che luccica: Nabokov sapeva essere estremamente difficile e la sua personalità era controversa tanto quanto la sua opera più famosa.

Nabokov linguista: tentativi di traduzione

Come già accennato, Nabokov conosceva il russo, la sua lingua madre, sapeva leggere e scrivere in francese, e padroneggiava bene l’inglese. Questo amore per le lingue lo portò a tradurre in russo parecchi autori inglesi e francesi, e ancora oggi la sua versione di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll è considerata tra le migliori. Il suo carattere è però tumultuoso e abbastanza presuntuoso; crede di riuscire a tradurre alla perfezione, riportando tutte le sfumature delle opere francesi e inglesi su cui lavora. Mette nero su bianco gli errori dei traduttori, addirittura stilandoli dal meno grave al più imperdonabile: in cima c’è l’obbiettivo di ottenere una traduzione “scorrevole”. Dichiara, infatti: “chi desidera tradurre in un’altra lingua un capolavoro letterario ha un unico dovere da rispettare: riprodurre con assoluta esattezza l’intero testo, e nient’altro che il testo. Il termine traduzione letterale è tautologico dal momento che qualsiasi altra cosa non è una vera traduzione ma un’imitazione, un adattamento o una parodia.”

Quando però decide di affrontare la traduzione di Eugenio Onegin, dal russo verso l’inglese scopre che il sogno di trasporre, di riprodurre fedelmente l’opera di un autore in un’altra lingua è semplicemente impossibile; arriva dunque a una conclusione che suona drastica: “Il traduttore deve lasciare in pace l’autore il cui immaginario è “inalienabile”. Così lo studio di Nabokov sulla traduzione dell’opera diventa matto e disperatissimo e la profondità della sua analisi è, in certi punti, così dettagliata e tecnica da risultare oscura per un profano. Quando l’opera viene pubblicata e fioccano le critiche, il tono saccente di Nabokov non lo aiuta affatto, e, anzi, quando un suo vecchio amico, Edmund Wilson, dice: “poiché Mr. Nabokov è il meno modesto degli uomini, non mi faccio scrupoli a ritorcere contro di lui le mie rivendicazioni antagoniste” e smonta completamente il testo evidenziando ogni singolo errore fatto da Nabokov, quest’ultimo risponde con un articolo di una lunghezza impossibile in cui attaccata, persino in modo abietto, il suo vecchio “amico”. Nabokov sarà anche un uomo estremamente colto, ma è abbastanza suscettibile ed estremamente pieno di sé e sicuro delle sue capacità. Ed è solo uno dei tanti motivi per cui i cui rapporti con i suoi contemporanei colleghi certo non potevano definirsi rilassati e pacifici.

Nabokov a caccia di farfalle

La passione di Nabokov per la conoscenza supera i limiti del mondo letterario e si allarga a quello dell’entomologia. D’altronde, l’autore era sempre stato attirato dalla bellezza, che fosse letteraria o meno, e lui stesso dichiara: “Non posso separare il piacere estetico che provo nel vedere una farfalla dal piacere scientifico di sapere che cosa è”.

La passione per i lepidotteri nasce sin dall’infanzia, e la sua collezione di farfalle inizia quando Nabokov aveva meno di dieci anni. Da allora sono state una costante nella sua vita tanto da pubblicare numerosi articoli e saggi sull’argomento. Per quanto il suo lavoro di ricerca fosse duro, Nabokov ne parla con un amore così profondo e con un entusiasmo così genuini da non rendere difficile capire perché l’entomologia sia stata così a lungo presente nella vita dell’autore. Nel 1945 alla sorella scrisse: “Il mio lavoro è inebriante, ma mi sta del tutto estenuando, mi sono rovinato la vista, porto occhiali con la montatura di corno: Sapere che l’organo che stai esaminando non è mai stato visto da nessuno prima di te, tracciare correlazioni che a nessuno prima di te erano venute in mente, immergersi nel meraviglioso mondo cristallino del microscopio, dove regna il silenzio, circoscritto dal proprio orizzonte, una bianca arena accecante – tutto questo e così seducente da non riuscire a descriverlo (in un certo senso, ne Il dono “predissi” il mio destino, questo rifugiarmi nell’entomologia)”.

La mente geniale di Nabokov riesce persino ad affiancare all’amore per le farfalle il suo guizzo immaginifico in una serie di disegni di lepidotteri immaginari, creati per la moglie o per alcune dediche sui libri per gli amici. Nabokov basa i disegni su specie esistenti e poi ne modifica lievemente le ali o il colore, rendendo il disegno anatomica plausibile ma del tutto irreale. Forse in quegli schizzi si nasconde la volontà di scoprire un nuovo tipo di lepidottero, o forse semplicemente la volontà di immaginare cosa potrebbe essere e invece non è. La carriera scientifica di Nabokov, ad ogni modo, ebbe una violenta frenata quando l’autore raggiunse il successo con i suoi romanzi, sebbene a livello privato continuò a coltivare la sua passione per le farfalle.

I due mondi dell’autore, scientifico e letterario, si uniscono in quello che è il suo romanzo più celebre: Lolita. L’opera è stata infatti scritta mentre Nabokov viaggiava, come ogni estate, per la raccolta di farfalle negli Stati Uniti occidentali.

Lolita: ninfa e fragile farfalla

“Lolita è un’opera tragica”, sosteneva Nabokov, e “il tragico e l’osceno si escludono a vicenda”. Sebbene sia uno dei romanzi più controversi di sempre, Lolita continua a dividere il pubblico dei lettori e a quasi 70 anni dalla sua pubblicazione continua a far parlare di sé. La storia ormai si conosce, ma per chi fosse un neofita, Lolita racconta dell’“amore” perverso di un uomo adulto, tale Humbert Humbert, per una ragazzina, Lolita, appunto. La vicenda è raccontata tramite la lente distorta della mente di H.H. e ben presto il lettore scopre che Lolita non è la seducente ragazzina che l’uomo vuole dipingere, ma semplicemente una povera bambina caduta nella trappola di un cacciatore, proprio come una farfalla catturata da un retino.

Jeremy Irons nei panni del Prof. Humbert Humbert, in “Lolita” (1997).

Il tema Lolita-farfalla appare spesso nel libro, in maniera indiretta ma estremamente calzante. Contrariamente a quanto si possa pensare, il termine “ninfetta” non deriva dalle creature leggiadre della mitologia, sebbene le caratteristiche messe in evidenza siano proprie anche di quelle creature. Il termine, in realtà, riprende la “ninfa”, quello stato intermedio della vita degli insetti in cui si accingono a passare dalla giovinezza all’età adulta. Il collegamento tra ninfa e farfalla viene messo in atto in Lolita in due momenti: quello in cui H.H. irretisce Lolita e quello in cui quest’ultima riesce a scappargli. Il primo avviene quando H.H. ritira Lolita dalla scuola e, con inquietante consapevolezza, il lettore realizza che, tra le cose che l’uomo mette a fuoco in quel momento ci sono: “fotografie di fanciulle; qualche sgargiante falena o farfalla, ancora viva, saldamente infilzata al muro.” È fatta. La Lolita-farfalla è ormai nelle sue mani, inchiodata al sedile dell’auto di H.H., imprigionata in squallidi motel, ormai un oggetto sotto lo sguardo di un predatore.  Arriva però il momento in cui Lolita riesce a scappare, l’alata fuggitiva smette di essere ninfa e diventa “adulta”. E Humbert Humbert è totalmente e irrimediabilmente perduto: “ … di fronte a me, come fiocchi di neve derelitti, le falene uscivano incerte dalle tenebre per entrare nel mio alone scrutatore. […] Mia Lolita! C’era ancora una sua forcina, vecchia di tre anni, nelle profondità del cruscotto. C’era ancora quel flusso di falene pallide che i miei fari risucchiavano dalla notte”. Le falene ormai sono lontane, proprio come Lolita, che non è più “sua” e forse non lo è mai stata.

Il declino totale della mente di H.H. è messo nero su bianco persino prima che tutto inizi, pronto per essere compreso dal lettore ma ancora non accettato dallo stesso H.H. : “Non penso di poter andare avanti. Il cuore, la testa… tutto. Lolita, Lolita, Lolita, Lolita, Lolita, Lolita, Lolita, Lolita, Lolita. Ripeti finché la pagina è piena.” E la consapevolezza che H.H. ha sempre finto di non voler vedere si apre davanti a lui quando Lolita non è più al suo fianco – o per meglio dire, tra le sue grinfie –: quel viaggio infinito era al tempo stesso una fuga e una ricerca, un modo per scappare dal passato doloroso e una scintilla di speranza per ritrovare quello che si era perduto: il suo primo amore. L’uomo spezzato che era H.H. mostra finalmente tutte le sue crepe, si frantuma sotto il peso delle sue colpe. Un predatore preda del suo stesso dolore. Ma questo non basta a fargli dimenticare e a perdonarsi. H.H. è un fallito, un cacciatore in realtà inetto, o come preferisce chiamarlo lo stesso Nabokov: “lurido signor Humbert.” Imperdonabile e indiscutibilmente colpevole.

Lolita di Nabokov come opera d'arte

Viste le numerose critiche che Lolita ha ricevuto sin dalla sua prima pubblicazione, nel 1956 Nabokov scrive una postfazione intitolandola Note su un libro chiamato Lolita, da allora allegata a ogni edizione del romanzo, il cui passaggio più interessante è senza dubbio la dichiarazione sulle finalità del romanzo: “Lolita non si porta dietro nessuna morale. Per me un’opera narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma.” E quindi Lolita, oggi disprezzata tanto quanto ammirata, per il suo creatore altro non era che una semplice opera d’arte. E non è forse proprio la finalità dell’arte quella di smuovere le coscienze, sia nel bene che nel male?

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