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Rings of power VS House of the Dragon

Rings of power VS House of the Dragon

So di arrivare con qualche settimana di ritardo, di aver forse mancato l’occasione di cavalcare l’onda dei commenti e delle discussioni degli ultimi due mesi. Ma i miei pensieri hanno necessitato di più tempo per essere elaborati, perché gli argomenti di cui desideravo parlare sin dall’inizio sapevo mi avrebbero dato filo da torcere. Perciò, a distanza di un mese dall’uscita delle due ultime rispettive puntate, eccomi a proporvi un confronto tra le due serie TV fantasy che hanno smosso il panorama televisivo del 2022: The Lord of the Rings – Rings of power e House of the dragon.

Sfida all'ultimo fantasy!

Ci troviamo davanti a serie TV profondamente diverse tra loro, ma certamente accomunate da due elementi: entrambe sono ascrivibili al genere fantasy; entrambe sono derivate da una base letteraria e di fan service estremamente potente. Da un lato abbiamo il maestoso lavoro di Tolkien, dall’altro l’opera ormai diventata cult di Martin. Oggi il mio discorso, tuttavia, verterà unicamente sui prodotti televisivi, poiché sono vergine dalla lettura dei libri da cui traggono origine, nonostante sia ben consapevole della loro fama e della loro larga ammirazione. Rings of power e House of the dragon sono due serie preziose. Non nel senso che hanno un grande valore (su questo torneremo in seguito), ma nel senso che entrambe rappresentano due miniere d’oro, due calamite acchiappa-spettatori che sono state gestite in modo totalmente diverso. I pareri su entrambe, ormai, a distanza di un mese, sono già ben definiti: guardando parecchi video online e leggendo articoli di critici che ne hanno parlato, mi sono accorta di quanto le serie siano state divisive e di quanto la loro uscita, quasi contemporanea, abbia fatto nascere un inevitabile confronto. Mettere a paragone due prodotti del genere ha senso?

Rings of power: una serie deludente

Partiamo con il mostro più spaventoso. Da quando sono piccola, alla domanda “qual è il tuo film preferito?” la mia risposta è sempre stata “La compagnia dell’anello”. Sono nata nei primissimi anni 2000. Quando ero nella culla, sugli schermi dei cinema di tutto il mondo esplodevano le battaglie della Terra di Mezzo e con la mitica avventura di Frodo sono diventata grande, imparando ad amare il genere fantasy in tutte le sue declinazioni. Tempo fa ho tentato di leggere l’opera di Tolkien, ma, ahimè, io e la scrittura del grandioso autore del fantastico non andiamo molto d’accordo. Quest’anno mi sono ripromessa di riconciliarmi almeno con l’audiolibro, disponibile gratuitamente su Spotify. Eppure, essendo una grandissima fan della trilogia di Jackson, non sono proprio digiuna: canali YouTube, siti internet e volumi scritti da terzi compiono un egregio lavoro per chi vuole immergersi nell’immaginario di Tolkien. Nel 2021 sono stata, infine, abbagliata dalla possibilità di vedere su piccolo schermo nuove avventure di quel mondo tanto amato, grazie alla messa in produzione di una serie TV targata Amazon: Rings of power. Ebbene, dopo aver guardato la serie, mi sono spiacevolmente resa conto che tra lei e un video di un canale come Valinor – Il Portale della Terra di Mezzo probabilmente Tolkien sarebbe stato più onorato di vedersi citare dai video di Frank di Valinor.

Cosa in Rings of power non ha funzionato? Mentre guardavo la serie TV sono state tantissime le cose che mi hanno persuaso a percepirla come un successo. Ma non appena l’abbaglio della fotografia, dei costumi e delle ambientazioni è svanito, mi sono ritrovata con le mani piene di sabbia. Allora mi sono chiesta: perché la trilogia di Jackson mi è piaciuta così tanto e da Rings of power, invece, mi sono sentita tradita? Alla base della risposta che mi sono data c’è un concetto di cui su questi schermi ci sentite chiacchierare spesso: è una questione di letteratura. La letteratura non sono solo i libri. Anche la sceneggiatura di un film può essere considerata una branca di questa enorme disciplina. I libri del Signore degli Anelli sono passati alla storia come uno dei più grandi esempi di letteratura fantastica perché in grado di veicolare ai lettori messaggi e mondi sbalorditivi, sinceri nel loro essere immaginari. Jackson, nei suoi film, è riuscito, tramite un lavoro sui testi originali durato più di dieci anni, a restituirci parte di quella sincerità. Rings of power, invece di regalare a noi spettatori l’ennesima sfaccettatura di quella poesia avventurosa che è la mente di Tolkien, ci ha regalato uno scrigno vuoto. Tempestato d’oro e di pietre preziose, ma vuoto.

Rings of power ci è stata venduta come la serie TV più costosa mai realizzata prima. Il denaro effettivamente speso lo troviamo negli elaborati costumi di scena, nelle meravigliose inquadrature, nella fotografia preziosa. È come se qualcuno ci avesse mostrato una tela perfettamente immacolata, dicendoci “guarda che bella trama, guarda che cotone resistente, e che bianco accecante!”, ma facendoci effettivamente ritrovare con in mano nulla di più che un’opera d’arte mai iniziata. Dove sono i colori, le forme, il genio? La sceneggiatura di Rings of power è una tela grezza, perfettamente costruita, ma priva di qualsiasi colpo di genio. Sarà perché a lesinare sul budget è stato proprio il reparto sceneggiatura? Sarà perché a scrivere la serie più costosa mai realizzata hanno assunto persone come Patricl McKay, John D. Payne, Gennifer Hutchison, Justin Doble e Stephany Folsom?

Se questi nomi non vi dicono nulla, vedrò di contestualizzarli. John D. Payne, Justin Doble e Gennifer Hutchison sono due sceneggiatori e una sceneggiatrice che hanno collaborato ad opere come The Sandman, La ruota del Tempo e Tenebre e ossa, tutte serie TV di genere fantasy in cui l’unica degna di essere ricordata per la sua scrittura è The Sandman, largamente maneggiata da Neil Gaiman, autore dei fumetti da cui è stata tratta ed esperto indiscusso della trasposizione televisiva delle sue opere letterarie, tutte trattate per essere convertite in prodotti per la TV eccellenti, come Good Omens, American Gods o Coraline e la porta magica. Anche Tenebre e ossa, non ai livelli di The Sandman, ha saputo reggere il confronto con i libri da cui è tratta, a volte persino superandoli, grazie, anche lì, alla collaborazione sul campo dell’autrice, Leigh Bardugo. 

Patrick McKay, showrunner “primario”, guardando banalmente i suoi lavori su Google, ci accorgiamo che qui è alle prese solo con la sua seconda fatica: la prima è stata la sceneggiatura del film Disney Jungle Cruise, che tutti voi ricorderete per la sua prestigiosa scrittura, giusto? Lo immaginavo. Anche Stephany Folsom vanta uno scarno curriculum, tra le cui produzioni ricordiamo Thor. Ragnarok e Toy Story 4: capite bene, non ci troviamo di fronte e a prodotti con una profondità autoriale del calibro del Signore degli anelli di Tolkien. Lungi da me sminuire contenuti certamente più leggeri! Leggerezza non è necessariamente sinonimo di superficialità. Ma forse per realizzare la serie TV più costosa mai fatta, tratta da una delle saghe fantasy più complesse mai scritte, avrebbero potuto puntare su atleti con qualche medaglia in più al collo. 

Quello che sarebbe dovuto essere il proseguo di un’avventura artistica che dura ormai da poco meno di un secolo, se si considera che il libro del Signore degli anelli è uscito nel 1954, Rings of power risulta un banale prodotto di cultura pop, prestigiosamente realizzato dal punto di vista estetico (anche se, a tal proposito, ho le mie motivazioni per storcere il naso) ma completamente inutile dal punto di vista autoriale. Le nuove (o per meglio dire, vecchie) storie della Terra di Mezzo che Amazon ci propina sono vuote, scarne, grossolane. Piene di elementi esterni al canone originale. Quando si traspone un libro in una serie TV o in un film mi rendo conto che rispettare precisamente il canone del romanzo originale non è facile e, se proprio vogliamo dirla tutta, neanche troppo necessario: creare qualcosa di nuovo ispirato ad un mondo esistente non ha nulla di sbagliato, ma in quel caso la struttura del copione dev’essere più solida che mai. Rings of power è piena di elementi che nel canone tolkeniano non compaiono(e no, non mi sto riferendo alle baggianate del tipo “gli elfi neri non esistono”), ma a veri e propri sviluppi narrativi, pretesti di trama e colpi di scena che sono stati inventati di sana pianta e che sono evidentemente deboli. Facciamo tre esempi. 

ALLARME SPOILER!

Esempio 1: tutta la storia di Galadriel, la sua ragione di vita, la forza che la spinge a lottare derivano dalla morte di suo fratello Finrod durante una grande battaglia contro Sauron, evento che riempirà Galadriel di un’insaziabile sete di vendetta. Nel canone tolkeniano gli elfi non muoiono, ma semplicemente tornano a Valinor, la loro terra d’origine, per vivere eternamente in pace. Anche gli elfi che vediamo trucidati sui campi di battagli non vanno incontro ad una vera  e propria morte, ma vengono fatti successivamente reincarnare dai Valar, dei del mondo tolkeniano. Finrod, nei libri, per il suo immenso valore, viene fatto reincarnare dai Valar subito dopo la sua morte. Quindi, per chi ha letto i libri, il pretesto di trama che muove tutta la storia di Galadriel è semplicemente insensato, perché suo fratello, a quel punto della storia, doveva essere vivo e vegeto, così come suo marito, presente anche nella trilogia di Jackson.

Esempio 2: verso la fine della prima stagione di Rings of power notiamo tre figure vestite di bianco, streghe che vagano sulla Terra di Mezzo alla ricerca del loro padrone, Sauron. Queste tre sorelle credono che l’oscuro signore sia Lo Straniero, arrivato tramite una cometa sulla Terra di Mezzo e ritrovato da una piccola pelopiedi. Lo Straniero, ce ne accorgiamo immediatamente, ha perso la memoria e non sa più chi sia né perché si trovi sulla Terra di Mezzo. Quando le tre sorelle lo avvicinano, eseguendo un rituale per sbloccare i suoi ricordi, Lo Straniero acquisisce tutte le sue conoscenze pregresse e rivela al pubblico di essere uno dei buoni. Le tre sorelle, rendendosi conto di aver sbagliato persona, ci annunciano che quello che hanno davanti è uno degli Istari e che “l’altro” dev’essere necessariamente il vero Sauron. Ma la domanda qui sorge spontanea: perché il personaggio che infine scopriamo essere Sauron non ha perso la memoria come Lo Straniero? Da dove è arrivato?   

Esempio 3: nell’ultima puntata di Rings of power, al momento di forgiare gli anelli del potere, Galadriel scopre che Halbrand è Sauron, il suo acerrimo nemico, che cerca da secoli per le lande desolate della Terra di Mezzo, disubbidendo al suo stesso re. Una volta scoperto che il suo nemico, che tutti credevano morto, in realtà è vivo e che gli anelli che egli stesso ha consigliato agli elfi di forgiare probabilmente sono oggetti malvagi, parte di un suo piano ancora più malvagio, Galadriel agisce in un modo a dir poco inspiegabile. Non solo non ferma la realizzazione degli anelli, ma neanche rivela a Celebrimbor e a Elrond che Halbrand è Sauron. Dice loro semplicemente che non si devono più fidare di lui. Quanto questa scelta di scrittura abbia senso me lo direte voi nei commenti.

FINE ALLARME SPOILER!

Dialoghi smilzi si alternano a silenzi e a immagini mozzafiato. Ma alla fine della giostra il bambino non può esultare solo per quanto sia ben costruito il suo cavallino. Manca l’esperienza, la commozione, la complessità della visione. E questo inciampo, con un materiale tanto vasto e radicato per le mani, non potevano proprio permetterselo.

House of the Dragon: la mano di Martin

Se Amazon ha fatto un fiasco con la scrittura di Rings of power, HBO si è superata con la messa in produzione di House of the Dragon. Se l’operazione di creare una serie TV dal mondo tolkieniano è stata rischiosa, non oso immaginare quanto lo sia stato creare una serie che avrebbe dovuto raccogliere intorno a sé tutti i fan profondamente delusi dalle ultime stagioni di Game of thrones. Queste, infatti, quando uscirono, si rivelarono un vero disastro a causa dell’azione degli sceneggiatori privi della direzione dei libri di Martin, autore dell’intera saga, che non aveva ancora terminato di scriverli. Ma con House of the Dragon le cose sono andate diversamente: il libro da cui attingere, infatti, esiste eccome e il fatto che la sceneggiatura della serie sia stata presieduta proprio da Martin si sente. Si sente nella forza dei dialoghi, che sono sempre taglienti, profondissimi e oscuri; nell’intreccio che la serie, anche attraverso importanti salti temporali, riesce a costruire con incredibile cura, lasciando che ogni passaggio scorra, ben oliato, così che l’attenzione del pubblico non cada mai; si vede nello strato di sottotesti che impregna la trama superficiale: House of the Dragon offre un racconto profondamente indagato e psicologico, specialmente per quanto riguarda le sue personagge principali, Alicent Hightower e Rhaenyra Targaryen. La mano di uno scrittore, di una persona, quindi, ampiamente capace di gestire un fitto bosco di messaggi letterari e narrativi, stringe in pugno ogni inquadratura, spostando in secondo piano alcune imprecisioni estetiche che la serie di Rings of power ha sicuramente evitato.

Quando l'estetica non basta

Ma l’estetica di un prodotto per la televisione può veramente sopperire alla mancanza di una scrittura solida? Al pubblico interessa più una carrellata di cartoline spettacolari rispetto ad un dialogo capace di lasciare senza fiato? Questa mania di abbagliare il pubblico con tutta la grandezza degli effetti visivi inizia a stancarmi, perché a soffrirne sono sempre le storie. La trilogia di Jackson è così attraente anche per gli enormi messaggi tolkeniani che riesce a trasmettere, e il fatto che le scenografie siano così sporche, materiali, imprecise rende l’esperienza solo più realistica e immersiva. Che il Balrog contro cui combatte Gandalf alla fine della Compagnia dell’anello sia palesemente in CGI non sposta minimamente il pathos dello spettatore, rapito da uno scontro in cui la componente narrativa è solidissima. Rings of power è addobbato perennemente da un filtro luminoso e “plasticoso”, alcune inquadrature sono opere d’arte, ma tutta questa bellezza ad ogni costo ad un tratto stanca: l’estetica ricca, dorata, precisa e incorruttibile come può sposarsi con l’atrocità di una guerra? Con la disperazione di una madre? Con la pesantezza di una crisi morale? La mia speranza è che questo primo capitolo, in cui la Terra di Mezzo non ha ancora incontrato la vera e propria ombra di Mordor, si distingua dai quattro che verranno successivamente (la serie è già stata rinnovata per cinque stagioni complessive), magari più oscuri e torbidi, man mano che le forze del male acquisiranno potere. Perché con l’oro, la luce, la precisione e la pulizia difficilmente si riescono a intravedere le ombre, le bruttezze e le storture di un universo che dovrebbe essere proprio questo: il contrasto tra un bene invisibile ma potentissimo e un male orrendo. Nei libri di Tolkien e nei film di Jackson il bene è rappresentato dalle anime pure dei personaggi, che possono essere brutti, sporchi, malandati e vestiti di stracci, ma saranno sempre più luminosi di qualsiasi sfondo soleggiato realizzato con un’ottima computer grafica.

La mia esperienza mi racconta che una serie TV nata da un’opera preesistente di ampio spessore autoriale non possa crescere bene senza il solido braccio del suo creatore originale. La mia esperienza mi mostra come gli sceneggiatori che si approcciano a questo genere di prodotti lo facciano forse con troppa superficialità. Ma non è giusto fare di tutta l’erba un fascio: ci sono film e serie TV che conservano una potenza immane nonostante non provengano da penne pubblicate in libreria. Il mio appello, tuttavia, quando si vanno a toccare volumi che hanno reso celebri generi letterari, è questo: scavate. Scavate fino in fondo, afferrate anche le minime sfumature, perché sono proprio le sfumature a rendere un libro grandioso. Non trattate il pubblico come un mostro a cui dare in pasto solo tanto spettacolo, ma come un sommelier in grado di capire le sfaccettature di un vino pregiato. Non tutti riusciranno ad assaporarlo a pieno, non tutti gli strati verranno colti, forse, ma certamente il loro peso lo sentirà anche lo spettatore meno attento. Sfidateci, dateci filo da torcere, stimolate le nostre menti, altrimenti evitate di prendere opere immensamente profonde come Il Signore degli Anelli per trasformarle in prove registiche di puro narcisismo.

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