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Zombie friendly – Ci si vede all’inferno

Zombie friendly – Ci si vede all’inferno

 

La figura dello zombie è ormai entrata nell’immaginario comune grazie soprattutto ai continui prodotti cinematografici nati oltreoceano. Gli americani sembrano non stancarsi mai di parlare di apocalissi. Per una volta, però, chi mette mano alla materia è un’italiana: Giulia Reverberi nel suo romanzo Zombie Friendly. 

Due protagonisti fuori dal comune

Zombie friendly entra in medias res nella narrazione mostrando al lettore il punto di vista di Andy, voce narrante del libro, accompagnato dal suo fedele bassotto Woody, mentre cercano di sopravvivere in una città disseminata di zombie.

I due non incarnano le caratteristiche tipiche dei protagonisti che si è soliti vedere in storie del genere. Non sono propriamente coraggiosi o pronti a gettarsi nella calca di zombie con un cucchiaio e mille idee diverse per usarlo. È quasi come se qualcuno avesse spostato la videocamera e l’avesse puntata su uno dei personaggi secondari, uno di quelli che non hanno doti straordinarie ma semplicemente tentano di arrivare a fine film, o più in generale, sopravvivere.

“Sopravvivere è come far cadere l’ultimo pezzo di pizza per terra: lo alzi, confidi nelle regola dei tre secondi e soffri, cercando di non notare nient’altro oltre alla fame che hai. Non si può fare gli schizzinosi quando non si ha altra possibilità.”

La routine di Andy ci mostra una persona vessata dal peso degli eventi, incastrata a metà tra la volontà di andare avanti e riuscire faticosamente a conquistare un altro giorno in un mondo che lo vuole (quasi) morto; e il passato, la vita di prima, quella dove non c’era la possibilità di essere divorato da uno zombie, ma soprattutto quella in cui c’erano ancora delle persone, nel bene e nel male. D’altronde, nemmeno il nostro peggior nemico si merita di diventare uno zombie o essere divorato da uno di essi.

E se noi ci ritrovassimo dall'oggi al domani in un'epidemia zombie?

Andy e Woody sono due esseri fragili. Per usare una metafora calzante, scomodiamo Manzoni: così come Don Abbondio “s’era dunque accorto […] d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro”, allo stesso modo i due hanno capito ben presto di non essere adatti al mondo post-apocalittico. Ma, d’altronde, non è una di quelle cose a cui ci si prepara mai veramente. Semplicemente un giorno ti svegli e ti accorgi che il tuo vicino non viene più a chiederti il sale ma a chiederti, meno gentilmente, di mangiarti.

Il segreto di Andy è semplicemente quello di essere intelligente, di imparare dai suoi errori e di migliorare volta dopo volta, limitando i danni il più possibile; il che, in una società pullulante di zombie, vuol dire imparare a capire cosa li attira, scoprire una logica – se esiste – dietro i loro comportanti e, nel complesso, evitarli il più possibile.

Ovviamente ciò comporta una vita abbastanza solitaria – non credo che gli zombie siano molto di compagnia –, in cui l’unico contatto umano di Andy è Blake, il suo vecchio capo che è riuscito a sopravvivere e con cui riesce a comunicare tramite ricetrasmittente. È come se Blake fosse la coscienza di Andy, un grillo parlante saggio e fastidiosamente ragionevole. Un alleato la cui “presenza” aiuta Andy ad affinare le sue capacità di sopravvivenza e tenere assieme i pezzi della sua psiche, non avvezza alla consapevolezza di sapere che razza di mondo c’è fuori dalla porta.

“Sono sempre stato un tipo ansioso, mamma diceva che l’ansia è il modo che la mia famiglia per essere certa di esistere.”

Un personaggio profondamente umano in un mondo di mostri

Andy dimostra più volte di aver sviluppato un disturbo da stress post-traumatico associato alla cosiddetta “sindrome del sopravvissuto”. La pericolosità della realtà che lo circonda, unita all’insicurezza che ne deriva, si riflettono nel suo animo, in bilico già prima che l’apocalisse si mettesse di mezzo. Il sentimento di non meritare di poter ancora combattere mentre persone “migliori” si sono ritrovate in situazioni peggiori al momento dell’esplosione del contagio che ha generato gli zombie, ritorna nella mente di Andy come un tarlo che rosicchia indefesso ogni briciolo di forza d’animo che gli rimane. Purtroppo, non c’è tempo per piangere sulle milioni di cose che sarebbero potute andare in altro modo, quando il mondo si sta disgregando pezzo dopo pezzo.

E, visto che le disgrazie non arrivano mai da sole, Andy deve far fronte ad un altro evento estremamente traumatico: la fine delle scorte di caffè. È proprio spinto da questa ennesima mancanza che decide di cercare una qualche comunità a cui unirsi, aggrappandosi alla speranza che esista ancora qualcun altro all’infuori di Blake che non desideri avvicinarsi a lui solo per il suo corpo (battuta infelice).

Un personaggio profondamente umano in un mondo di mostri

Giulia Reverberi riesce a trattare temi quali la solitudine e la depressione senza cadere mai nel banale o nel fuori luogo. Usando una penna leggera e ironica, toglie la patina dorata creata dai film americani in cui i protagonisti sono senza macchia e senza paura e umanizza non solo Andy ma anche tutti gli altri, senza dimenticare che il peggior amico dell’uomo è soprattutto l’uomo stesso.
D’altronde, lo diceva anche Hobbes: homo homini lupus. In breve, un “Io sono Leggenda” svuotato dello sfarzoso e supereroistico occhio hollywoodiano.
In una società in cui gli zombie avanzano senza controllo, sono gli esseri umani che dimostrano, ancora una volta, di essere i veri mostri della storia.

 

“Al mio cospetto le creature più temibili mai create, capaci di ferirmi senza nemmeno muoversi, programmate geneticamente a essere un casino e, contro ogni probabilità, dure a morire: gli esseri umani.”

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