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La terra al di là: una guida turistica per paesi senza nome

La terra al di là: una guida turistica per paesi senza nome

Gene Wolfe, maestro della fantascienza ermetica e visionaria, ci conduce in un viaggio inquietante dentro una terra che potrebbe essere semplicemente l’altra faccia del reale. La terra al di là, pubblicato postumo in Italia da Edizioni di Atlantide, è un romanzo camuffato da diario di viaggio, una guida turistica scritta da un prigioniero che crede di essere un esploratore — o forse il contrario.

La fantascienza dell'ambiguità

In Gene Wolfe, il lettore non è mai un semplice spettatore: è un complice, un traduttore, talvolta persino un infiltrato. La sua narrativa non si limita a essere raccontata — va decifrata. Le coordinate geografiche sono vaghe, i dettagli sfuggenti, e ogni parola sembra portare con sé una seconda ombra, un doppio significato, una trappola semantica.

In La terra al di là, questa poetica del non detto e del parzialmente rivelato trova una forma narrativa perfetta: il protagonista è uno scrittore americano, razionale e metodico, che parte per documentare un paese non segnato su nessuna mappa turistica, determinato a scrivere la prima guida ufficiale. Un’impresa apparentemente bizzarra, ma trattata con assoluta serietà dal protagonista, come se bastasse la volontà di nominare un luogo per addomesticarlo. Ma la realtà si rivela da subito ostile e opaca: l’uomo viene fermato già alla frontiera e trascinato in una città la cui logica interna sfugge a ogni catalogazione.

Qui, nulla è esplicitamente violento: tutto è orchestrato da un potere burocratico che si nasconde dietro la cortesia, da una sorveglianza onnipresente ma mai dichiarata, come se anche l’oppressione avesse il dovere di essere educata. Il ritmo del romanzo è quello di un sogno lucido, in cui si è sempre sul punto di svegliarsi — ma si sceglie di restare, forse per curiosità, forse per una forma di fede mal riposta.

Le nostre strade non hanno nomi.

— Gene Wolfe, La terra al di là

La situazione con il passare delle pagine diventa sempre più intricata e assurda, ancora più alienante a causa dell’enorme barriera linguistica che distorce le intenzioni e porta con sé il peso silenzioso del sospetto, dell’errore di traduzione, dell’equivoco politico. Il protagonista è prigioniero, ma non per un delitto: è prigioniero perché esiste. E in un mondo dove il significato è continuamente rinegoziato, questa semplice esistenza diventa insostenibile. L’ironia sottile che attraversa il romanzo si insinua nei dialoghi volutamente surreali, nella messa in scena grottesca di ruoli e relazioni, nelle situazioni che sembrano uscite da un sogno burocratico diretto da un Wes Anderson intrappolato in un dramma balcanico.

Eppure, in mezzo a questo disordine apparentemente comico, Wolfe mantiene sempre una tensione sotterranea, quasi teologica, come se da un momento all’altro un Dio in divisa potesse affacciarsi da una finestra e ordinare l’esecuzione sommaria di tutti i personaggi, colpevoli soltanto di esistere in una storia che non dovevano raccontare. La sensazione costante è quella di essere spiati da un’entità che non capiamo — e che forse non ci capisce. Ma ci osserva, e questo basta.

Kafka fa l'autostop

Impossibile non pensare a Kafka mentre seguiamo il protagonista – Grafton – tra mappe che mentono, passaporti sequestrati e funzionari dalle motivazioni opache. Ma se nel Processo l’angoscia era assoluta e muta, qui Wolfe la stempera in un’ironia amara, quasi svagata, come se l’intero universo si divertisse a recitare il ruolo del secondino senza mai dichiarare il carcere. La terra al di là è una distopia quieta, fatta di silenzi, corridoi, alberi da frutto e leggende locali, in cui la violenza è burocratica, i fantasmi sono metafore della colpa (o forse no), e ogni risposta genera altre domande. Eppure è una distopia “à la Wolfe”: ontologica e ironica. Non cerca di spaventare il lettore, ma di disorientarlo dolcemente, portandolo a camminare lungo un bordo invisibile tra il noto e l’inconcepibile.

The trial - Elke Rehder (1996)

Il tono apparentemente disincantato di Grafton, con la sua ostinata fiducia nel buon senso e nel proprio ruolo di osservatore neutrale, si incrina pagina dopo pagina. È un narratore affascinante proprio perché non sempre affidabile: racconta eventi straordinari con il candore di chi non ne coglie la gravità, e relega le vere epifanie sotto strati di banalità. Le sue reazioni sono spesso spiazzanti, le sue intuizioni mai dette a voce alta, come se lui stesso temesse di capire troppo. Ogni incontro potrebbe essere una trappola, ogni personaggio una maschera, ogni frase un codice. Wolfe gioca con il lettore senza mai dichiarare le regole: lascia briciole di senso in un bosco narrativo dove le coordinate sono mobili e i segnali ingannevoli. Il confine tra sogno, follia e soprannaturale si assottiglia fino a sparire, ma non viene mai varcato del tutto: come se Wolfe ci volesse mantenere sempre sull’orlo del precipizio, a contemplare l’abisso senza mai cadere, chiedendoci se il vero carcere sia quello in cui entra Grafton — o quello da cui non riesce più a uscire.

Perdersi tra le pagine e le strade

La terra al di là è un libro che non va letto, va interpretato. O forse meglio: va vissuto come si vive una visita in un paese sconosciuto in cui nessuno parla la tua lingua, le strade non hanno nomi e i tuoi documenti sono spariti. È una guida per viaggiatori dell’inconscio, un esercizio spirituale travestito da farsa geopolitica. Wolfe ci invita a perderci — davvero — e ci chiede se siamo pronti a non ritrovarci mai.

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