
La cinquina finalista al Premio Strega: parliamone!
L’estate è arrivata e con essa l’annuncio della cinquina finale del Premio Strega, che quest’anno arriva alla sua LXXIX edizione. Annunciati nella serata del 4 Giugno dal Teatro Romano di Benevento e dalla voce della vincitrice della scorsa edizione, Donatella di Pietrantonio, ecco i titoli finalisti: Andrea Bajani, L’anniversario (Feltrinelli), 280 voti; Nadia Terranova, Quello che so di te (Guanda), 226 voti; Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare (Rizzoli), 205 voti; Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo (Mondadori), 180 voti; Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa), 180 voti.

In questo articolo alcune streghe della redazione si sono prese l’onere e l’onore di leggere un titolo della cinquina a testa per portarvi un commento sulla propria lettura. Spesso il Premio Strega è soggetto a polemiche e non sempre i titoli candidati (o vincitori!) convincono il grande pubblico: quest’anno le cose saranno diverse? Sicuramente la comparsa di case editrici meno imponenti tra la rosa dei candidati e la maggiore diversificazione delle storie proposte fa ben sperare!
In attesa di scoprire il vincitore o la vincitrice di quest’edizione (la premiazione si terrà domani, giovedì 3 luglio), scopriamo innanzitutto i lavori proposti.
L’anniversario di Andrea Bajani
Annullamento. Per tutto il romanzo di Andrea Bajani, L’anniversario – edito da Feltrinelli e primo della cinquina finalista del Premio Strega 2025 –, l’autore sottolinea questa azione, o “non azione”, che la madre compie e subisce allo stesso tempo. Scorrendo le pagine e leggendone le parole pezzo per pezzo, si comprende la sottigliezza dell’impotenza di una persona nel poter riprendere in mano la propria vita. Diventa più facile annullarsi, sottomettersi e arrendersi completamente all’altro. Ed è così che fa la madre del protagonista; ed è così che fanno anche i suoi figli, che sembrano più spettatori silenziosi e compassionevoli, il cui potere resta limitato. Perché figli di un padre padrone, perché figli di una famiglia staccata, sconnessa, spezzata, dove ognuno ha la sua dimensione: quella scolastica, quella lavorativa, quella sentimentale. Tutti tranne una: la madre, la moglie che «stava dentro il suo silenzio». Una violenza stretta e perenne, che quieta si insinua e si fonde lentamente in dinamiche che presto prendono nuova forma e si plasmano su un’immagine diversa e che la si prende anche per vera. Una realtà in cui si è costretti, ma in verità è l’unica che i protagonisti conoscono. Il padre diventa il Fato che esprime colpe, giudizi e sentenze.
Mio padre fece polvere e rottami di ogni tipo di legame, familiare e non. Trasformò la vita di sua moglie in un deserto senza vita all’orizzonte. Solo lei era l’unica in grado di abitarlo, quel deserto, l’unica che aveva espresso una rinuncia così totale, così definitiva, a tutto.
L’anniversario, Andrea Bajani
I ruoli nel romanzo di Andrea Bajani sono quelli della famiglia tradizionale. Di una famiglia che si ferma, si isola e si allontana dal resto del mondo, a cui viene imposto un congelamento temporale. Il padre va al lavoro, i figli a scuola e la donna resta a casa. Da sola, senza nemmeno un telefono fisso che le permette di restare in contatto con amiche e familiari. L’anniversario, che ha già vinto il Premio Strega Giovani di quest’anno, sottolineando il successo meritato dell’opera, affronta con affilata conflittualità le relazioni di una rete familiare problematica, che al giorno d’oggi vorremmo fosse arcaica. Bajani ci costringe ad affrontare in faccia la realtà e a riflettere. Il romanzo non è eccessivamente lungo, ma concentra, con un carico da novanta, le conflittualità di una vita coniugale tossica, piena di disprezzo e disperazione.
Quello che so di te, Nadia Terranova candidata per la seconda volta al Premio Strega
Il romanzo di Nadia Terranova, Quello che so di te, tra i finalisti del Premio Strega, ci racconta di una ricerca affannata per un passato. La protagonista, voce narrante, torna in Sicilia – sia fisicamente sia spiritualmente – per scoprire le vicende della sua bisnonna rinchiusa in un manicomio nella prima metà del Novecento. Ed è così che la scrittrice ricostruisce, tassello dopo tassello, una verità inattesa. Quella verità, che poi scopre labile, sempre soggettiva e mutevole, e che si è smembrata, si è contorta, ha subito delle modifiche da parte di tutti coloro che l’hanno comandata. Passando di bocca in bocca.
Come ogni leggenda, viene tramandata per via orale, senza lasciare nessuna traccia scritta. Una conoscenza fragile, che prende la forma di espressioni dialettali, incise più che altro in una memoria novecentesca, dove storia e cultura si combinano. La protagonista parte da quella che lei chiama Mitologia Familiare, ovvero un ammasso di credenze che nella propria famiglia si sono passate di generazione in generazione. La Mitologia è tutto: la personificazione di un pensiero astratto che diventa concreto, che si muove e striscia oltrepassato le barriere temporali. Si insinua nei pensieri della narratrice e che la spinge a dire: ma qual è la storia di Venera? Che fine ha fatto quando è stata internata nella Villa della Salute? Come è stata trattata?
Quando mia figlia sarà grande, il tempo e la verità avranno trasformato i sassi in vento, le leggende di famiglia in parole elastiche, e il dolore sarà diventato innocuo.
Quello che so di te, Nadia Terranova
La Mitologia Familiare è un velo che cade e rivela ciò che è accaduto veramente. La storia di una moglie e di una madre costretta a sopportare tutte le credenze dell’epoca. Una donna che subisce le decisioni e le angherie del Barbablù di turno che rinchiude la moglie in manicomio, una fiaba di uomini che parlano solo con altri uomini e decidono per le donne. Così, «psicosi», «isteria» e «nevrastenia», rappresentano la chiave di lettura di un pregiudizio, di un costrutto sociale, in cui chi è di sesso femminile possiede un grande dovere centrale, tutto il resto è di contorno o non deve esistere. Nadia Terranova, già finalista del Premio Strega nel 2019 con il romanzo Addio fantasmi, domina il suo libro con una scrittura densa, introspettiva e piena di significato. La scrittrice combina gli elementi di una storia vera a quelli di una poetica tutta personale: le leggende non sono solo quelle di una famiglia matrilineare, ma anche quelle di una terra e di un popolo, la Sicilia e i siciliani. Queste pagine, quindi, si possono leggere e interpretare su tanti livelli, come quello sociale che ci permette di affrontare il presente tramite la rievocazione del passato. Quello familiare, composto da un albero genealogico delle persone. E quello spirituale, fatto di sentimenti, solitudini e introspezioni che ci costringono a riflettere.
Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare
Perduto è questo mare, edito da Rizzoli, nasce come l’occasione per l’autrice Elisabetta Rasy per ripercorrere i passi della propria giovinezza, in particolare riflettendo sul rapporto con il padre e con lo scrittore Raffaele La Capria. È la città di Napoli a prestarsi da palcoscenico, tanto affascinante quanto decadente, nel turbolento periodo che segue la fine della Seconda Guerra Mondiale. Rasy, alla sua seconda candidatura al Premio Strega, dopo il saggio biografico Ritratti di signora nel 1995, trascina il lettore all’interno di questa cornice di ambientazione filo-aristocratica – talvolta addirittura a forza, inaspettatamente, perché la narrazione non procede lineare, bensì per flashback che assecondano il flusso del ricordo. Il registro è alto, supportato da un vocabolario evocativo e da una dotta serie di riferimenti artistici, cinematografici e letterari. Si distinguono, ad esempio, la citazione de La lettera al padre di Kafka e un’interessante sovrapposizione tra la figura paterna e l’Enea virgiliano.
Ci sono cose che non si cureranno mai, pensava […]. Tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture. A chi ha la pazienza di aspettare.
Quello che so di te, Nadia Terranova
Non mancano, ovviamente, le disquisizioni su temi politico-sociali dell’epoca: negli anni Cinquanta, infatti, resistevano ancora le leggi sul delitto d’onore e sul reato di adulterio femminile. Tali inserimenti contribuiscono di certo a innalzare la percezione culturale dell’opera, influendo però sulla comprensione immediata del testo. Si tratta di un testo a carattere autobiografico (motivo per cui, spesso, la narrazione risulta didascalica nella coerenza cronologica), eppure sembra aleggiare in una sorta di dimensione alternativa, ulteriore, dove i ricordi ingrigiscono il paesaggio di malinconia. Perduto è questo mare è un romanzo che indaga la complessità dei legami familiari attraverso l’esempio di due uomini, figure paterne quasi egualitarie, concedendo lo spunto per riflettere sulla potenza della memoria e sulla rielaborazione del ricordo. Nonostante la tenerezza dei rapporti narrati, a regnare è proprio una nebbia di nostalgia perché la terra promessa è sempre una terra perduta.
Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo
Chiudo la porta e urlo non è un romanzo nel senso classico del termine – non lo è quasi mai, con Nori – ma un diario frammentato, una specie di elegia spezzata. Leggere Nori è come ascoltare qualcuno che ti parla mentre sta camminando avanti e indietro in una stanza. La voce corre, si ferma, riparte, torna indietro. Ma non si perde mai. C’è una coerenza emotiva che tiene insieme tutto, anche quando l’argomento sembra scivolare via, anche quando la narrazione si fa ellittica. Difficile spiegare un libro del genere, che non pretende, non si impone, non costruisce. Semplicemente, accade. Chi cerca una trama, uno svolgimento, dei personaggi rotondi, farebbe bene a chiudere il libro prima di aprirlo. Ma chi vuole fermarsi ad ascoltare un vecchio amico che parla un po’ della sua vita, delle sue passioni, dei suoi fallimenti e delle sue illusioni, allora Nori è l’autore che fa per voi.
I libri, c’è da dire, non mi piacciono tanto per quello che dicono ma per come mi fanno sentire.
Chiudo la porta e urlo, Paolo Nori
La lingua, da Nori, non è mai solo un mezzo: è la protagonista. Una lingua che s’incaglia, che cambia idea a metà frase. È come se le parole avessero un’autonomia emotiva, come se a volte decidessero loro dove andare, e Nori si limitasse a seguirle, magari borbottando qualcosa. È un italiano tanto emiliano, un po’ sbagliato, molto preciso che mantiene un tono in bilico tra l’assurdo e la confessione, tra il cabaret intellettuale e il diario sgualcito. A volte pare di leggere un comico russo che ha fatto l’Erasmus a Bologna. Il titolo, Chiudo la porta e urlo, è una frase così intima paradossalmente messa in bella vista, che strizza l’occhio a chiunque legga. Chi non ha mai chiuso la porta per non farsi vedere? Chi non ha mai urlato in silenzio? Nori lo fa, e ci fa sedere in prima fila al suo spettacolo emotivo. Ce lo dice. Ce lo urla, in sordina. Con pudore. Con rabbia. Con amore.
Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia ci costringe a guardare in faccia ciò che resta dopo la perdita. Oggetti, stanze, gesti, parole che non si dicono più. Questo libro non grida — sussurra e scricchiola come una casa vuota che trattiene ancora le vite ormai passate di chi l’ha abitata. I personaggi non hanno nomi perché la perdita è universale. Madre, padre, maggiore, minore — figure archetipiche, quasi mitologiche nella loro essenzialità, che si muovono (e a un certo punto smettono di muoversi) all’interno di uno spazio domestico saturato di storia. Una casa che è più di un luogo: è il teatro di tutto ciò che è stato e che non sarà più.
C’è chi dice che il tempo cura ogni cosa. Madre non è per niente d’accordo. Ci sono cose che non si cureranno mai, pensava […]. Tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture. A chi ha la pazienza di aspettare.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, Michele Roul
Il romanzo si presenta come una sequenza di fotogrammi, oggetti, momenti: ognuno carico di una malinconia sussurrata, mai dichiarata apertamente. C’è una grande delicatezza, quasi pudore, nel modo in cui viene rappresentata la perdita. L’autore non si abbandona al melodramma, ma costruisce un lutto silenzioso, fatto di routine che non hanno più senso, di stoviglie che nessuno usa, di cassetti che nessuno apre.
Il dolore era sempre stato con lei, l’aveva attesa per tutta la mattina senza mai andarsene. […] Una delle scoperte peggiori che aveva fatto è che di dolore non si muore. Ti abbatte. Poi ti aspetta.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, Michele Roul
Non ci sono finali consolatori. Non ci sono risposte. Solo un elenco — un inventario, appunto — di ciò che rimane. Così il libro si trasforma anche in una resistenza contro l’oblio: nominare, ricordare, posare lo sguardo su ciò che è sopravvissuto. Che sia una forchetta, una fotografia, o una frase mai detta. Un esercizio di cura, più che di narrazione. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un romanzo sul dopo. Sulla cenere, sul vuoto, sul peso di chi resta. Non cerca di consolare, né di spiegare. Ma, con lucidità e grazia, ci accompagna nel dolore, senza farci mai sentire soli.